Contro la Ue: tanto tuonò che piovve

Intendiamoci: la politica governativa, cioè il governare tout court in base ad un’alleanza a due, non è aliena dagli scontri. Scontri e incontri, si capisce, laddove i dissensi siano, da un lato bisognosi di una lite, e gli incontri derivino dalle necessità intrinseche e inevitabili di un’alleanza venuta a cadere la quale, la parola torna agli elettori.

In effetti, questa parola (minaccia) viene molto più spesso accantonata e rinviata sine die in quanto la sua misurazione effettiva non riguarda il valore e il significato in re ipsa, ma nelle situazioni personali dei parlamentari intesi bensì come votanti di leggi ma, soprattutto, come rinnovabili dai voti nelle elezioni prossime venture. Donde, per non pochi grillini – al di là delle contumelie anti politico-parlamentari di prima – prevalgono freni e stop ad elezioni anticipate.

Comprensibili, beninteso, queste remore, bastando all’uopo uno sguardo superficiale proprio a quel mitico M5S che partito non è e non vuole essere, accontentandosi di una definizione onnicomprensiva e sfumata come movimento nel quale sono bandite le correnti intese sia come luoghi di dissenso organizzato sia come espressione di quello che una volta si chiamava libero pensiero. Insomma, sempre di libertà si tratta. Più o meno vigilata.

Il fatto è che, dopo un ritiro, sia pure vigile, del Beppe Grillo d’antan, la guida del Movimento 5 Stelle è stata affidata a Luigi Di Maio che è di certo il vicepresidente del Consiglio, ma anche e soprattutto il capo politico del movimento al grido di “via la politica (corrotta, ovviamente) dei partiti, avanti col nuovo modo di governare” e, quando capita di avere a che fare con la Giustizia e i suoi per dir così operatori, eccoci di nuovo alle stesse grida: via le correnti dalla magistratura.

I risultati di queste alte, altissime esortazioni, sono davanti ai nostri occhi, giorno per giorno, e più volte al giorno non foss’altro perché l’altro contraente dell’alleanza e co-firmatario del non meno leggendario “Contratto di governo” è quel Matteo Salvini dotato non solo o non tanto di toni e tuoni (soprattutto mediatici) ben più alti, ma specialmente di una struttura partitica solida e di un’esperienza, difficilmente battibile, di cose politico-governative.

Su questo sfondo, le diatribe interne erano previste e prevedibili anche da quel Luigi Di Maio che nelle elezioni europee – avvertita la corsa di un Salvini dimentico di qualsiasi richiamo local-leghistico e senza freni nella declamazione di un sovranismo che, a ben vedere, è una versione aggiornata del nazionalismo – ha impresso al suo movimento una svolta a sinistra sperando di frenare la perdita di voti col non brillante risultato di vedere passare alla Lega (e al non voto) buona parte di quegli elettori non di sinistra che l’anno scorso avevano sostenuto i pentastellati. Voleva essere, la sua, una sorta di ricerca identitaria di un voto a gauche del grillismo, risoltasi in un vero e proprio successo all’incontrario: la perdita di circa sei milioni di voti in poco più di un anno. Una sconfitta che, tra l’altro, come ben sappiamo, spalanca ulteriori porte all’attivismo di Salvini che ne ha immediatamente approfittato per l’approvazione, sempre rinviata dai grillini, dello “Sblocca cantieri” cui siamo certi che seguirà, più prima che poi, quella Tav su cui i cosiddetti ortodossi del M5S pongono veti e freni ai quali porrà termine lo stesso Di Maio, per non dire del buon Giuseppe Conte, sia pure in trasferta in Vietnam.

Intanto la Commissione europea per le infrazioni ha aperto una procedura per debito eccessivo giacché la “regola non è stata rispettata nel 2018, nel 2019 e non lo sarà nel 2020”, cui ha risposto un Presidente del Consiglio più deciso che mai nel rispettare e far rispettare il Patto di stabilità, mentre Salvini che non risparmia mai di tuonare contro la Ue, assicura che “Quota cento” non si tocca e Di Maio, infine, conclude che la colpa è degli altri, quelli di prima.

In realtà, non va sottovalutata la differenza di fondo fra lo stesso Premier che in un’intervista a La Stampa ha garantito che non sarà lui a rompere con Bruxelles, mentre il prevedibile tuono salviniano ha specificato che le condizione europee sono inaccettabili e reclama il 3 per cento di deficit per tutti, e il collega leghista Borghi ha detto a chiare lettere che accettare le condizioni Ue significa recessione e servono nuove idee come il progetto di 100 infrastrutture europee.

Come si diceva una volta: tanto tuonò, che piovve.

Aggiornato il 07 giugno 2019 alle ore 10:05