Crisi di Governo: Orgoglio e pregiudizio

Dopo la due-giorni di consultazioni, la parola sulla soluzione della crisi di governo è passata al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Ieri sera il Capo dello Stato, apparso visibilmente contrariato per la condotta bizantina delle delegazioni dei principali partiti, non è stato in grado di annunciare il nome del Presidente del Consiglio incaricato, come avrebbe desiderato. Occorrono ancora dei giorni perché Partito Democratico e MoVimento Cinque Stelle possano trovare la piena intesa sul futuro Esecutivo. Il Presidente, comunque, ha concesso ancora cinque giorni di tempo perché si giunga a definire il perimetro della futura maggioranza.

Mattarella ha chiesto tempi stretti e programmi certi per andare avanti fino al termine della legislatura. Niente governi a tempo o pateracchi del medesimo tenore: o c’è una maggioranza politica chiaramente definita o si va al voto anticipato, tertium non datur. Dal punto di vista formale la posizione del Quirinale appare ineccepibile, ma lo è nella sostanza? A riguardo, abbiamo qualche dubbio perché Mattarella non ha incluso tra i requisiti richiesti per il varo di un nuovo Governo la seppur generica compatibilità tra l’orientamento della costituenda maggioranza parlamentare e la volontà degli elettori, rilevabile non da evanescenti sondaggi ma dai test delle Regionali e dai recentissimi risultati sul rinnovo del Parlamento europeo.

Si obietterà: l’Italia è una democrazia parlamentare. Vero, tuttavia il buon senso, e un’interpretazione non formalistica della norma costituzionale, consiglierebbe di non consentire eccessiva distanza, se non aperta divaricazione, tra la rappresentanza parlamentare e il sentire del Paese. Nel dare il via libera a un Governo giallo-rosso tra Partito Democratico e Cinque Stelle Mattarella si assumerebbe la non lieve responsabilità di affidare la guida del Paese a una coalizione in cui, tanto per stare ai numeri, appena 90 giorni orsono alle elezioni Europee nelle circoscrizioni del Nord-Ovest e del Nord-Est, dove si concentra metà della popolazione italiana e la maggior quota del Pil nazionale, Partito Democratico e Cinque Stelle sommati hanno ottenuto il 34 per cento dei consensi, cioè solo un elettore su tre ha votato per loro. Si dirà, il Parlamento è un’altra storia. Giusto, ma quanto è prudente avallare scelte destinate ad accrescere il risentimento verso le istituzioni che si negano alla verifica democratica?

Tale comportamento si tradurrebbe in un regalo, l’ennesimo, alle ragioni di un populismo crescente. Il Presidente della Repubblica è attento anche ai contenuti dell’ipotetica nuova maggioranza. Fa benissimo ad esserlo. Tuttavia, è lecito domandare se una piattaforma programmatica, di là dalla retorica di rito infarcita di aria fritta, possa essere basata concretamente sull’esigenza di sopravvivenza politica dei Cinque Stelle, dati in caduta libera nei consensi, e sulla speculare necessità della sinistra di “sbarrare la strada alle destre”. Siamo all’interesse complessivo del Paese o al patto di potere degli sconfitti? Il Presidente della Repubblica, titolare di un ruolo arbitrale nella dinamica istituzionale, chiuderebbe entrambi gli occhi sulla nascita di un Governo anti-Matteo Salvini?

Il capo dello Stato desidera che a sostenere un nuovo Governo vi sia una maggioranza solida. Sul concetto bisogna intendersi. Quando Mattarella chiede solidità ha in mente solo l’aspetto numerico o anche quello politico? La questione non è di dettaglio, atteso che la costituenda maggioranza giallo-rossa per stare in piedi, in particolare al Senato, ha bisogno dei voti dei senatori iscritti al gruppo Misto. Ora, se la solidità la si intende esclusivamente quantitativa transeat, ma se è richiesta qualità diventa arduo sostenere che il Governo nascente ne abbia, visto che affida la golden share al gruppo Misto.

Resta, tuttavia, aperta la questione di fondo che riguarda l’effettiva ampiezza del principio di libertà di mandato che garantisce l’azione politica dei rappresentanti del popolo/corpo elettorale. Una riflessione sul punto sarebbe ora di farla. La vicenda del comportamento parlamentare dei Cinque Stelle è paradigmatica. I grillini, al netto della propaganda, devono essere considerati i veri ribaltonisti in questa legislatura. Non per la sorprendente facilità con la quale riescono a concepire cambi radicali di alleanze, ma per il sostanziale sovvertimento della natura stessa del Movimento politico in corso d’opera rispetto al profilo ideale mostrato durante la campagna elettorale del 2018.

Ciò che gli italiani hanno votato alle ultime politiche era un soggetto politico ispirato all’idea forte di movimento di popolo anti-sistema e anti-establishment, schierato contro i poteri forti interni alla nazione e contro i mestatori dell’acquis comunitario europeo. Nel volgere di pochi mesi il Movimento si è trasformato in una sorta di partito governista, vocato ad associarsi a quei poteri forti che nelle intenzioni avrebbe dovuto combattere e, in Europa, a supportare i desiderata dall’asse di potere franco-germanico. Prova eclatante del ribaltamento ideale è stato il contributo decisivo della pattuglia europarlamentare grillina all’elezione alla presidenza della Commissione europea della tedesca Ursula von der Leyen, pupilla politica della cancelliera Angela Merkel e candidata dal francese Emmanuel Macron.

È dunque lecito domandarsi: i Cinque Stelle, se avessero dichiarato a suo tempo l’intenzione di trasformarsi in partito pro-establishment avrebbero raccolto uguale messe di voti? Ben inteso, i Cinque Stelle hanno tutto il diritto di cambiare idea, ma correttezza e lealtà istituzionale vorrebbero che prima di avventurarsi in un’esperienza che ne rovescia l’indirizzo politico, si presentassero al giudizio degli italiani. Perché ogni cambiamento non sanzionato dal voto popolare finisce per essere colpito dal sospetto di congiura di palazzo.

Piddini e grillini si vedano pure per cementare nuovi patti ma che siano accordi post-elettorali. Vogliono stare insieme? Benissimo, ma chiedano il consenso agli italiani. Piaccia o no, questa è la democrazia. E, per favore, basta con la manfrina che in nome del parlamentarismo ogni schifezza sia consentita. C’è la libertà del parlamentare dal vincolo di mandato e c’è l’articolo 1 della Costituzione. “...La sovranità appartiene al popolo...”.

Aggiornato il 26 agosto 2019 alle ore 13:12