La piattaforma Rousseau e l’obbedienza al capo

mercoledì 4 settembre 2019


L’80 per cento dei votanti sulla piattaforma Rousseau ha detto “sì” al governo giallo-rosa-rosso dopo che nei giorni scorsi il garante del Movimento 5 stelle, Beppe Grillo, si era sperticato a benedire l’operazione, aveva elevato Giuseppe Conte agli onori degli altari, strigliato il riottoso Luigi Di Maio, messo a tacere la minoranza dissenziente e parlato con Dio.

Sia lodata la piattaforma, vien da dire, perché, con questo voto “bulgaro”, ha reso attuale l’insegnamento lasciato dai populismi nella storia. L’insegnamento è questo: tutti i populismi sono finalizzati, in prima battuta, a determinare negli elettori lo smarrimento della coscienza critica e a indurli a conformarsi alla volontà del leader.

Vediamo di intenderci. Il voto on-line, pur irrituale in una democrazia rappresentativa, non è in contrasto con la Carta costituzionale. Può non essere aderente al suo spirito, come ha recentemente detto Giovanni Maria Flick, ma questo non basta per consacrarne l’illegittimità. Qui, pertanto, non si pone in dubbio questo aspetto e nemmeno la genuinità del voto. Diamo per buono che il procedimento sia legittimo e il voto privo di trucchi.

Il punto è un altro e attiene all’essenza dei populismi, ideologie alle quali il Movimento attinge a piene mani. Sì, ideologie a tutto tondo, c’è poco da fare: altro che movimento postideologico. I populismi non sono solo formazioni che privilegiano la narrazione semplice dei problemi o recepiscono i malesseri della società, quasi con fare filantropico, e che guardano alla soluzione dei problemi in quanto tali. Il modo semplificato e diretto di comunicare con la massa è solo l’involucro mieloso della costruzione. Chi guida questi fenomeni persegue finalità molto più raffinate, ideologiche appunto. Il primo obiettivo è far credere, con strumenti mediatici di persuasione, che il popolo sia il solo soggetto legittimato a riempire la piramide istituzionale. Cosa offrire di meglio, allora, di una piattaforma sulla quale votare? Il paradosso è che il popolo, o una sua parte, alla fine crede davvero di possedere queste caratteristiche e di essere parte fondamentale dei processi decisionali. In più, con una costante opera di demonizzazione dei competitori politici, i neo leader deformano la percezione della rappresentatività democratica e alimentano la convinzione che solo con una loro investitura plebiscitaria si possa raddrizzare il sistema in termini autenticamente democratici.

Il popolo, alla fine, s’identifica nel leader e il leader diventa il popolo. I populismi, allora, diventano rovinosi. Non tanto perché destabilizzano lo status quo, ma perché sconfinano in forme di esercizio del potere che di fatto annullano le libertà. I populismi sono segatura oleosa sulla quale la democrazia rappresentativa scivola e sulla quale, alla fine dei giochi, il popolo stesso perde l’equilibrio, non rendendosi conto che finirà per essere espulso, esso stesso, dal circuito decisionale, perché le decisioni reali saranno avocate dal leader.

A questo punto, si può tirare la conclusione che discende plasticamente dalla conduzione della crisi di governo e dal voto sulla piattaforma Rousseau: il fine ultimo dei populismi sono la presa e l’uso del potere in quanto tale. In tutto questo non c’è niente di democratico, se non una farcitura esterna, buona solo ad ingannare i commensali, ai quali, proprio con questo stratagemma, si vuol far credere che il disinteresse per il potere sia il vero companatico, quando, invece, il companatico sta proprio nella conquista e nell’esercizio del potere stesso.

La fine delle ideologie è dunque una falsità. Il “pragmatismo responsabile”, al quale qualcuno si è affidato per spiegare la spinta post-ideologica dei nuovi fenomeni di massa, non esiste, è soltanto un trompe l’oeil linguistico e concettuale. E nel Paese dei Barbagianni, di collodiana memoria, tra pinocchi e impinocchiamenti, gatti e volpi, attecchisce con una qualche facilità.


di Alessandro Giovannini