Governo: aggiungi un posto a tavola

La scissione del Partito Democratico è servita. Tutto è andato secondo copione. Matteo Renzi, maestro di tattica, ha sfruttato lo spiraglio aperto dall’errore di Matteo Salvini. Il precipitare della crisi di governo ha consentito all’ex premier di riprendere il comando delle operazioni nel Partito Democratico imponendo a un incerto Nicola Zingaretti di stringere il patto con il diavolo pentastellato.

Fatto il Governo giallo-fucsia, sistemati in ruoli strategici i propri sodali, l’astuto senatore di Scandicci è passato alla seconda parte del piano: mettersi in proprio per assicurarsi la golden share sul Conte bis. Perché stupirsi dell’accelerazione degli ultimi giorni? Esiste qualcuno così ingenuo da aver pensato che un tipetto alla Renzi si sarebbe accontentato di stare in un cantuccio a guardare gli altri, maggioranza “dem” e grillini”, fare a pezzi il suo sistema di potere? Davvero ci si è illusi che il ruolo di novello Richelieu della politica italiana sarebbe stato affidato a una figura scialba quale quella di Dario Franceschini, un vecchio democristiano ipocrita, incistato nei Palazzi del potere il cui unico scopo nella vita è stare sul ponte di comando, comunque e con chiunque. O, peggio, lasciare che l’avvocato di se stesso, Giuseppe Conte, si convincesse di essere realmente un grande statista?

La ricreazione è durata poco, il tempo del completamento dell’organigramma dell’Esecutivo con la nomina dei sottosegretari e le cose sono tornate al loro posto. Renzi ha riconquistato il centro della scena politica. Il suo primo atto, dopo il varo della nuova forza parlamentare “Italia Viva”, è stato di sfidare il competitore naturale, Matteo Salvini. L’attacco a testa bassa al sovranismo è un modo per Renzi di rivendicare la guida del fronte avverso alla destra. Povero “Giuseppi” Conte, che per qualche momento si era illuso di essere lui l’anti-Salvini. I dirigenti del Partito Democratico si dicono amareggiati per non confessare la cruda verità: Renzi se li è giocati e loro non se sono resi conto. Ancora adesso fanno fatica a capire. Eppure, c’è ben poco da comprendere. Lo ha spiegato lo stesso “rottamatore” nell’intervista-manifesto concessa a “la Repubblica” ieri l’altro. “Il Pd nasce come grande intuizione di un partito all’americana capace di riconoscersi in un leader e fondato sulle primarie… Oggi il Pd è un insieme di correnti… Mi fa uscire (dal Pd, ndr) la mancanza di una visione del futuro”. Più chiaro di così! L’analisi che motiva la scelta della rottura si focalizza sulla mancanza d’identità dell’odierno Pd. Un carrozzone di capibastone che mirano al potere senza avere una weltanschauung. Verrebbe da obiettare: da che pulpito viene la predica. Ma la forza di Renzi è sempre stata nella capacità di costruire una narrazione artefatta del reale in grado di sovvertire la realtà stessa. Il far precipitare i tempi della scissione è connesso alla fase prossima della scelta, di competenza governativa, di oltre 400 profili manageriali per le aziende pubbliche e per alcune partecipate statali, sulle quali Renzi intende mettere becco. Da protagonista, non da spettatore.

Riguardo alla stabilità dell’Esecutivo, i grillini non hanno nulla da temere: Renzi lo sosterrà fino alla fine, a condizione che gli sia ceduto il timone. Ciò comporterà per Luigi Di Maio e compagni un altro piccolo sacrificio dopo quelli compiuti per mettersi in affari con il Pd di cui avevano detto peste e corna. Il leader di cartone dei Cinque Stelle, dopo aver detto che mai avrebbe accettato di sedere allo stesso tavolo con Matteo Renzi, ora dovrà acconciarsi a incontrarlo spesso. Poco male, si tratta di mandare giù tutta di un fiato una robusta secchiata di palta. Certo che coi tempi che corrono tenersi stretta la poltrona comporta qualche sacrificio. Paradossalmente, qualsiasi ne sia stata la motivazione, la creazione di una gamba moderata a sostegno del Governo giallo-fucsia dovrebbe impedire, in particolare sul terreno delle scelte di politica economica, pericolosi deragliamenti verso il massimalismo dirigista della sinistra radicale. Che comunque non è un male per gli italiani.

Molto male invece per Forza Italia. In un mercato elettorale piuttosto asfittico è improbabile che l’iniziativa renziana sfondi, perché anche nell’osannato centro non manca l’intasamento. Oltre ai cespugli ancillari al Partito Democratico, come il partito etichetta di Beatrice Lorenzin, da tempo opera +Europa, coacervo di trombati della Prima e Seconda repubblica. Di recente si è aggiunto “Siamo Europei”, il nuovo Movimento di Carlo Calenda e Matteo Richetti e adesso arriva “Italia Viva” di Renzi. Troppi galli per un pollaio che non si è di certo ripopolato dalla crisi mondiale del 2007 e con la reazione dei ceti medi produttivi agli squilibri sociali prodotti dall’avvento della globalizzazione economica. L’unica nicchia di mercato ancora contendibile resta quella del partito di Silvio Berlusconi. Ed è a quella quota di elettorato che Matteo Renzi punta per dare solidità numerica alla sua nuova creatura. Non è un caso che, a proposito del Governo, il “rottamatore” preconizzi: “Probabilmente si allargherà la base del consenso parlamentare”. È uno sfacciato annuncio di un indecente shopping tra deputati e senatori forzisti. Se la campagna acquisti dovesse dare esito positivo, sarebbe l’ennesimo colpo alla credibilità di un Governo che ne ha avuto poca fin dal suo sorgere. Pessima scena da mostrare al mondo, il solito opportunismo dei politici italiani. La piantassero le anime belle della sinistra che in queste ore si arrampicano sugli specchi per spiegare con i massimi sistemi una situazione che è di una miseria umana disarmante.

Non è vero che questo scempio non poteva essere evitato. Non c’è stato un destino cinico e baro a far precipitare la politica italiana nel caos. Questa crisi ha i suoi responsabili che si conoscono per nome e cognome. Il maggiore indiziato è il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Il Capo dello Stato aveva il potere di tenere la nostra fragile democrazia sulla strada maestra dei principi costituzionali, che sono altro rispetto all’interpretazione formalistica del dettato della Carta. Avrebbe potuto rimettere all’elettorato la responsabilità di fare chiarezza sul quadro politico redistribuendo i pesi di tutti i partiti e i movimenti in campo in modo più coerente con i propri indirizzi. Invece, il Presidente della Repubblica si è prodigato per cercare vie traverse pur di riportare in gioco uno sconfitto Pd all’interno di un Governo “laqualunque”. Renzi che si stacca dal suo partito ma s’impegna a tenere in piedi l’Esecutivo traballante è la conseguenza inevitabile del degrado politico indotto dall’ultradecennale egemonia della sinistra sui Poteri e sugli Organi dello Stato. Se da oggi le coordinate del Governo saranno l’instabilità e il ricatto permanente, ben sapremo a chi attribuirne la colpa. Questo il palazzo. Poi c’è il popolo e ci sono le urne. Poco importa che nell’immediato possano essere soltanto locali. Le urne, quali che siano, in politica segnalano sempre il sentire profondo della nazione. E da quello non si può scappare.

Aggiornato il 20 settembre 2019 alle ore 10:09