M5S-Pd: identità cercasi

venerdì 11 ottobre 2019


Persino nei venti di guerra che spirano fra turchi e curdi è facile rinvenire un’assenza che, come ha osservato il nostro direttore, risiede nella totale mancanza di una politica che proprio nelle parole sbrigative di Giuseppe Conte e negli speech e interviste del presenzialista (a parole, s’intende) Luigi Di Maio risalta e si rifrange dentro l’implacabile specchio di una mancanza grave: quella dell’identità.

L’identità assente nei Cinque Stelle non meno che nel Partito Democratico, i due partiti che reggono un Governo in base ad un’alleanza ad essere buoni spuria e comunque rifiutata, con negazioni virulente, fino alla settimana prima del suo avvento. E già in un simile episodio ciò che appare con palmare evidenza è un embrassons nous che non contiene una sia pur minima passione politica, incapace di offrire alcuna spinta ideale e negando qualsiasi ombra ideologica basandosi, più che su un programma, su un contratto di interessi.

Il Movimento 5 Stelle ha avuto successo nelle ultime elezioni sull’avvio, negli anni scorsi, di un campagna violenta e diffamatoria contro tutti i partiti dandosi come piattaforma di lotta l’obiettivo dell’apriscatole col quale scoperchiare un Parlamento in quanto sede della corruzione e ribadendo, al tempo stesso, un perenne rigurgito di demagogia nutrita di giustizialismo e di populismo utili bensì a trovare facili consensi ma del tutto inefficaci allorquando, come è capitato, ci si imbarca in alleanze di governo, prima con la Lega  di Matteo Salvini ed ora col Pd di Nicola Zingaretti.

La più vera sostanza dell’identità pentastellata rimane dunque quel “vaffa” gridato ai quattro venti giacché non con altro il grillismo di lotta ha strutturato la sua guerra furibonda contro la Casta allo scopo di delegittimarne la sua stessa essenza oltre che rappresentanza in un Parlamento sul quale il vero obiettivo di Di Maio era issare la bandiera della sua cancellazione in nome, s’intende, di quella che chiamano democrazia diretta ed è invece, allo stato, la mascheratura di un’operazione a sfondo totalitario. E la retorica del taglio delle poltrone rientra in questo vuoto identitario ma pur sempre pericoloso per la stessa democrazia nella misura con la quale lo stesso taglio eseguito dal forbicione dimaiano davanti a Montecitorio resta l’emblema di un assalto alla stessa, per ora contenuto, anche se ci ha condotto sull’orlo del baratro. In questo quadro si è consumata l’impressionante resa di Zingaretti all’alleato di governo come testimonianza non soltanto di un crollo allo scopo di mantenere in vita un Esecutivo nel timore di elezioni anticipate, ma anche e soprattutto come prova, l’ennesima, di un vuoto, di un nulla, di un’assenza di una identità sia politica che programmatica.

In effetti il Pd è un partito senza respiro, senza alcuna apertura all’esterno, chiuso in una dimensione puramente tattica con opzioni fissate alla gestione di un potere per conservarne gli spazi per manovre asfittiche che impediscono coniugazioni effettive di lanci e rilanci propositivi e programmatici, come del resto è chiaramente evidenziato dai balbettii sulla Legge di Bilancio non meno che sulle attuali, drammatiche evenienze in politica estera.

La stessa realizzazione di questa maggioranza ne ha messo in evidenza i vistosi limiti di cui il Pd è parte più che integrante come partecipante ad un Governo nato non su una volontà di unione, ma su linee divergenti, per ragioni negative, sia per scongiurare il pericolo di un anticipo delle urne, sia in modo particolare, per non far vincere la Lega di Salvini. Al quale si possono rimproverare errori, ma non certo quello di essere e di muoversi forte di una identità.


di Paolo Pillitteri