Certo che il nostro è uno strano mondo. Accadono cose alla rovescia. Si prenda il caso di una lite familiare per motivi patrimoniali. Solitamente sono i figli che provano a spodestare il genitore dandogli del rincitrullito per l’eccessiva sensibilità alle interessate attenzioni della esotica badante extracomunitaria.

Nel caso della famiglia De Benedetti accade l’inverso: è l’arzillo ottantacinquenne ingegnere Carlo, squalo della finanza per sempre, a dare l’assalto ai beni di famiglia passati ai figli Rodolfo, Edoardo e Marco, accusati di essere degli incapaci. La vicenda è quella della proprietà della quota azionaria di maggioranza della società Gedi, titolare del gruppo editoriale che include i quotidiani La Stampa, La Repubblica, Il Secolo XIX nonché alcune testate locali, oltre al settimanale L’Espresso e a tre emittenti radiofoniche con frequenze nazionali (Radio Deejay, Radio Capital e M2O). L’offerta di acquisto del 29,9 per cento delle azioni di Gedi è stata presentata lo scorso venerdì alla Cir s.p.a., la holding della famiglia De Benedetti. Le motivazioni dell’operazione l’ingegnere le ha messe nero su bianco in una lettera che ha accompagnato l’offerta d’acquisto. Il patriarca accusa i figli di non avere passione e competenza per gestire un’impresa editoriale. L’azienda, secondo l’ingegnere, sarebbe in crisi. Sospetta che i tre fratelli stiano cercando un compratore esterno pur di liberarsi in tempo della gestione del gruppo editoriale. Il vecchio De Benedetti non ci sta. Ne fa una questione sentimentale, figli e giornale non sono alla pari nella scala dei suoi affetti.

L’ingegnere non può assistere inerme al declino della sua creatura. È sicuro che un suo intervento diretto consentirebbe un salvataggio in extremis del gruppo. Non soddisfatto di aver reso pubbliche le sue motivazioni, De Benedetti fa di più: affida il suo sfogo nientemeno che alla concorrenza. Di ieri la lunga intervista concessa ad Aldo Cazzullo e pubblicata dal Corriere della Sera. È un déjà-vu: sembra di essere tornati al 2007, alla signora Veronica Lario in Berlusconi che si scaglia contro il marito, reo di comportamento coniugale scorretto e lesivo della sua dignità di donna, e che si serve dell’ospitalità offertale dagli arcinemici de “la Repubblica” per rendere pubblica la sua doglianza.

Come era ovvio che accadesse, i tre figli dell’ingegnere si sono compattati per respingere l’aggressione paterna. Il figlio maggiore si dice “profondamente amareggiato e sconcertato dall’iniziativa non sollecitata né concordata presa da mio padre”. Strano, però, che né lui né i fratelli abbiano imparato dal genitore che le categorie sentimentali dell’amarezza e dello sconcerto non appartengono al mondo degli affari. Con un comunicato stampa diffuso domenica i tre hanno fatto sapere che l’offerta è da ritenersi irricevibile. In primo luogo per la cifra offerta: 38 milioni di euro, cioè 25 centesimi ad azione. A Cazzullo che gli chiedeva del perché di un’offerta da sottocosto, l’ingegnere non ha smentito il suo istinto da squalo: “Il mercato ha dimostrato che l’azienda se non gestita dai mei figli vale di più. Gestita dai miei figli, l’azienda vale 25 centesimi ad azione. La pago al prezzo cui hanno ridotto l’azienda. Perché dovrei pagarla di più?”. Quando si dice l’amore di un padre per i figli…

Intanto la querelle familiare ha riacceso l’appetito dei mercati. Dopo il colpo di teatro dell’ingegnere il titolo è volato in Borsa recuperando in una seduta 15,8 punti sul suo valore (0,29 ad azione), prima di essere sospeso per eccesso di rialzo. La mossa del vecchio De Benedetti non ha mancato di suscitare qualche simpatia, soprattutto per le motivazioni addotte.

Il presidente di Rcs, Urbano Cairo, l’ha giudicata una mossa “romantica”. Quanto vi possa essere di romantico nell’azione di un predatore finanziario è difficile comprenderlo. La verità è che l’offerta ostile lanciata da De Benedetti, che, per inciso, chiede come condizione per il perfezionamento dell’offerta vincolante l’immediato allontanamento dei tre figli dal Consiglio d’Amministrazione di Gedi, ha motivazioni extra-imprenditoriali. L’amore per la storia gloriosa del gruppo e la preoccupazione per la sorte dei dipendenti nel caso di naufragio della gestione attuale reggono fino a un certo punto. La chiave per capire De Benedetti è De Benedetti stesso. O meglio, sono le sue parole. Lo confessa a Cazzullo nel momento in cui annuncia l’intenzione di affidare il gruppo una volta salvato a una Fondazione che ne assicuri un futuro indipendente. Il pensiero va a “la Repubblica”, che è stata “un pezzo importante della vita di questo Paese. Tante cose sono avvenute su Repubblica, e tante cose sono avvenute a causa di Repubblica, sia sul piano politico che su quello culturale, direi anche civico. Il gruppo Espresso ha avuto in Italia un ruolo fondamentale. Merita di essere conservato e gestito”. Ecco svelato l’arcano. De Benedetti non ci sta a restare fermo in panchina in un momento politico dove tutto è fluido.

L’ingegnere si è reso conto che una nuova espansione della sinistra potrebbe prodursi a seguito del matrimonio di convenienza contratto dal Partito Democratico con il Movimento Cinque Stelle. E a lui non basta essere testimone dell’evento: vuole un ruolo di primo piano, da ostetrico dell’anomalo parto. Lo ha detto chiaro, senza mezze parole: Repubblica ha contribuito a costruire l’egemonia della sinistra, non può smettere di farlo a causa di figlioli incapaci ai quali non contesta solo l’incompetenza ma anche, si badi, la mancanza di passione. E cos’è la passione per un affarista cha ha l’ambizione di manovrare la politica? È la sete di potere che non passa neanche se si ha ottantacinque anni e l’aldilà alle viste. D’altro canto, perché meravigliarsi? L’ingegnere appartiene a quella razza padrona ben raccontata dal suo ex-sodale, Eugenio Scalfari, e da Giuseppe Turani nel 1974, un’era geologica fa. In fondo anche in uno squalo come De Bendetti vi può essere qualcosa di gandhiano, in particolare di quel “vivi come se dovessi morire domani. Impara come se dovessi vivere per sempre” che l’ingegnere ha preso alla lettera.

Il guaio è che siamo noi popolo italiano ad esserci stufati di lui e delle sue prodezze, che, guarda caso, finiscono sovente in bidoni finanziari puntualmente rimediati con i soldi dei contribuenti. Fu pensando a lui e ai guai combinati in Olivetti che il compianto presidente Francesco Cossiga coniò quella felicissima locuzione per descrivere i capitani coraggiosi che “privatizzano i profitti e socializzano le perdite”. Ora, nella saga dei De Bendetti il padre vuole scannarsi con i figli? Affar loro. Vuole riprendersi il controllo dei giornali per acquistare la tessera n.1 del futuro partito-minestrone penta-democratico? Si accomodi. Va tutto bene a patto però che le sue intraprese non costino un centesimo agli italiani. A riguardo meglio essere netti perché, come si dice, patti chiari, amicizia lunga.

Aggiornato il 17 ottobre 2019 alle ore 15:25