Corpi intermedi tra crisi economica e perdita di senso

La brutta piega che ha preso la vicenda dell’acciaieria di Taranto costringe a interrogarsi su ciò che siamo e su come vediamo, o non vediamo, il futuro della società.

Finora, contando sull’alibi della società liquida che non offre tempo e spazio per riflettere sulla sostanza del vivere comunitario, abbiamo evitato accuratamente di rispondere alle domande più scomode. Come struzzi che di fronte al pericolo infilano la testa sotto la sabbia. E per questa gigantesca opera di rimozione e di fuga dalle responsabilità connesse all’esercizio del pensiero nessuno può chiamarsi fuori e dirsi totalmente immune dal contagio. In primis, la classe dirigente di questo Paese. È piaciuto vedere nei tweet e nella politica inoculata con espressioni da iniezioni intramuscolari la nuova frontiera della comunicazione politica? Allora non possiamo prendercela che con noi stessi quando ascoltiamo il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ammettere candidamente, a favore di telecamere, che lui riguardo alla crisi con ArcelorMittal non ha ricette in tasca, non sa cosa fare. E non soddisfatto dell’ammissione d’impotenza rincara la dose inviando la richiesta ai ministri del suo Gabinetto di farsi venire qualche idea per cavarsi fuori dai guai, dopo aver fatto un pasticcio con l’acciaieria tarantina.

Alzando lo sguardo per osservare la realtà oltre il cortile di casa della politica politicante, dove demagogia, disinformazione e retorica propagandistica la fanno da padrone, si scorge un problema irrisolto del nostro tempo storico che sollecita risposte. La questione riguarda il vuoto di progettualità scaturito dalla disintermediazione dei corpi intermedi. La società plasmata sul mito della velocità ha rozzamente agitato lo scalpo della mediazione sociale espunta dalle dinamiche relazionali intracomunitarie come il trofeo che l’“homo technologicus” avrebbe potuto esibire a segno della sua vittoria sulla Storia. C’è chi ha invocato il tempo della democrazia diretta, affidata a uno oscuro algoritmo di una piattaforma digitale e c’è chi, come Matteo Renzi, ha menato vanto di asserire che la disintermediazione fosse l’effetto di fenomeni di cambiamento prodotti per partenogenesi dalla realtà. C’è chi ha creduto alla novità, li ha applauditi e li ha votati. Tuttavia, non si è riflettuto abbastanza sul fatto che il pifferaio fiorentino, il comico genovese e tutti i laudatori delle vere o presunte palingenesi progressiste, potessero avere torto. Che no, la ricomposizione di un dialogo tra le componenti del mondo del lavoro e della produzione, tanto per cominciare prima di affrontare il problema democratico nel suo complesso, avrebbe potuto metterci al riparo dal rischio, come comunità nazionale, di perdere la rotta e finire alla deriva.

È pur vero che i tanto vituperati corpi intermedi, in particolare le associazioni dei datori di lavoro e i sindacati dei lavoratori, hanno messo del loro per farsi disprezzare. Si sono rappresentati come casta, con l’arroganza di chi ha il potere e lo gestisce con assoluto arbitrio. Li ricordiamo bene gli anni del consociativismo, pensato e messo a punto nelle stanze del potere della sinistra, che sono stati gli anni della vergogna. Movimenti politici sono nati e hanno proliferato nutrendosi dell’odio popolare per quella categoria di sanguisughe, schierate a falange macedone nella difesa di interessi corporativi e di lucrose rendite di posizione. Come non volerli vedere defenestrati insieme ai capi e agli ascari della partitocrazia? Ma questa è stata l’onda di piena che, cominciata a defluire, ha lasciato sul terreno ingombranti detriti e carcasse decomposte di strutture e pezzi di architetture istituzionali dalle quali un tempo fluivano le dinamiche democratiche. No, nessuna nostalgia e nessun bel ricordo del tempo dell’imperio dei corpi intermedi, dei tavoli permanenti di concertazione dove partiti, rappresentanze sindacali e datoriali ed espressioni della società civile, si spartivano financo il vasellame, dopo aver liquefatto l’argenteria.

Purtuttavia, alla luce dell’odierna perdita di senso di una società che si sta smarrendo perché priva di idee forti e di visioni aggreganti, riaffiora il bisogno di un ritorno a una qualche forma sana d’intermediazione dei corpi intermedi, in funzione propedeutica alla stipula di una “santa alleanza” tra capitale e lavoro. Per i sovranisti, finita da un pezzo la lotta di classe, il futuro è nella compartecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese. Riprende quota, come obiettivo raggiungibile, l’utopia dei padroni e dei lavoratori imbarcati sulla stessa scialuppa, accomunati da uguali destini, messi a remare nelle medesima direzione. Torna a fare capolino l’articolo 46 della Costituzione rimasto finora lettera morta: “Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”.

Non è stata roba di sinistra, piuttosto è stato di destra pensare di associare la forza lavoro alla gestione dell’impresa (il dibattito nella destra sulla cogestione risale agli anni Sessanta del secolo scorso). Negli anni della sbornia per le grandi concentrazioni capitalistiche, del padronato anonimo, della finanza transfrontaliera, della globalizzazione, un modello del genere sembrava reperto da archeologia delle relazioni industriali. E ora si scopre che yes-we-can, che si può fare? Di recente, a un convegno organizzato a Genova dall’Ucid (Unione Cristiana Imprenditori Dirigenti) se n’è parlato. Sul tema “Nuove forme partecipative e nuovi modelli di relazioni industriali alla luce della Dottrina sociale della Chiesa” (su “Formiche” c’è un ampio resoconto del convegno) sono state dette cose impegnative. Per il presidente nazionale del Cts dell’Ucid, Riccardo Pedrizzi, “la crisi del capitalismo finanziario si potrà superare, incentivando e promuovendo nuove forme partecipative e la diffusione dell’azionario tra i dipendenti delle singole aziende”. Oltre, Giulio Romani, segretario confederale Cisl, ha osservato “come molte delle crisi degli ultimi anni sarebbero potute essere scongiurate con strumenti di partecipazione, nel quadro generale di un potenziamento della democrazia economica”. È solo il raduno di un manipolo di nostalgici o dobbiamo prenderli sul serio? Qui non c’è da fare i furbi, da buttarla in caciara. Sarebbe fin troppo comodo dire che la questione riguardi i populisti e tutti i movimenti antisistema che hanno fatto della furia iconoclasta contro i simboli e gli strumenti dell’antico regime consociativo la loro missione speciale. La domanda interroga anche i fautori del liberismo e i loro epigoni turbo-capitalisti. Sarebbe ipotizzabile una confluenza d’interessi tra capitale e lavoro mediata dalle associazioni di rappresentanza delle due componenti nel nome di una più efficace responsabilità sociale d’impresa? O si pensa di lasciare padroni e lavoratori sulle due rive opposte del fiume, destinati a non incontrarsi mai? Difficile dire.

Tuttavia, se si valuta negativamente ciò che l’ondata della disintermediazione nell’economia, come nella politica, sia riuscita a combinare, se il risultato è di avere al timone un premier imperito, che ammette di non sapere cosa fare in una situazione di emergenza nazionale, al diavolo il populismo e i finti innovatori. Messa giù così diventa perfino facile scandire la cosa più ovvia che un conservatore possa desiderare: al futuro sia maestro il passato.

Aggiornato il 14 novembre 2019 alle ore 10:55