Giorgetti, dalla Lega un segnale istituzionale

Si capisce che la Prima Repubblica non torna più. E si capisce, pure, che non è vero, in politica, che il passato non passi, anzi.

Nella politica dei nostri tempi, ma non solo, uno sguardo a ciò che è stato prima non è soltanto un’opzione secondaria, ma diventa necessaria anche e soprattutto rispetto sia nel non ripetere peccati mortali e vizi endemici d’antan sia, come nel caso in questione, nel saper cogliere vantaggi che sembravano, al cosiddetto nuovo che avanza, soltanto colpe di fondo ed ora un’occasione per diverse riflessioni.

Un politico leghista come Giancarlo Giorgetti, offrendo un’intelligente proposta in riferimento ad una rilettura attiva di una Costituzione che, volenti o nolenti, mostra spesso gli oltre settanta anni d’età, non può non avere pensato anche alla massima (allora) questione in merito all’antico sistema elettorale basato sulle preferenze alla cui condanna si attribuiva la maxima culpa, naturalmente non del tutto a torto.

Ed ecco il trionfale ingresso del nuovo sistema, l’attuale, che abolendo la preferenza introduceva il maggioritario al cui fondamento veniva immesso, insieme agli ovvi vantaggi, anche uno svantaggio proprio per l’elettore che si vedeva piombato addosso il collegio con candidato e il relativo prendere o lasciare. Di qua o di là, insomma, e basta con i cambi di casacca, con la bandiera dell’opportunismo piantata secondo personali interessi, basta coi partiti e le loro correnti (convenienze), basta coi giri di valzer alla ricerca di un nuovo ubi consistam partitico.

Il fatto è che il passaggio dalle parole ai fatti non è sempre garantito da una legge, soprattutto in un Paese, dal carattere mutevole, cangiante e dove le scelte sono soggette più alla loro variabilità che alla solidità nel tempo. È fuori dubbio che lo schema di Giorgetti preveda una modifica costituzionale e istituzionale che attenga a problematiche più vaste di una modifica elettorale, il che comporta un appello a tutte le forze politiche chiamate ad un aggiustamento che contiene in sé l’obbligo di una partecipazione collegiale.

Ed è già in una simile chiamata erga omnes che la proposta non può che iscriversi in un tentativo di abbassare i toni, di moderare un clima di perenne rissa in cui prevalgono istanze e slogan elettorali piuttosto che progetti e programmi col rischio che la propaganda, peraltro indispensabile nel confronto fra diversi, diventi fine a se stessa. Del resto, l’alta percentuale di astensioni nelle chiamate alle urne testimonia un distacco se non una indifferenza ai cosiddetti obblighi scadenzati, evidenziando non soltanto una sordità alle chiamate ma una stanchezza, una mancanza di fiducia, un tenersi alla larga dagli stessi schieramenti. Ed è assai probabile che in tutto questo clima sfiduciato giochi un ruolo non secondario una vera e propria impossibilità per l’elettore di compiere una scelta degna di questo nome proprio per la sottratta possibilità di dare la sua fiducia a colui o colei che dovrebbe rappresentare in Parlamento le sue istanze, i suoi desideri, i suoi “sogni”, assorbiti e gestiti a priori dalla potestà indiscutibile di leader che, innanzitutto nelle elezioni, impongono (verbo un po’ eccessivo ma dà l’idea) i candidati che più lo aggradano, specialmente per i giuramenti di fiducia se non di fede. Intendiamoci: collegi e candidature piovute dall’alto non hanno evitato cambi di casacca e giri di valzer; fatti, questi, che hanno ulteriormente disamorato l’elettore. Bene dunque ha fatto Giorgetti a proporre una calma nel caso, pardon, nel caos italiano.

Comunque, chi vivrà vedrà.

Aggiornato il 15 novembre 2019 alle ore 11:08