Inchiesta “Open”: 7 domande e altrettanti dubbi

martedì 3 dicembre 2019


Le indagini sul reperimento e la destinazione dei proventi della Fondazione “Open” aprono molti interrogativi e suscitano notevoli dubbi, ma confermano comunque un’assoluta certezza: che l’Italia è ammalata di panpenalismo. Ogni anfratto della vita di relazione è oggi regolato da un’infinità di norme, tra le quali si insinua immancabilmente l’apposita norma sanzionatoria penale. Il codice, teoricamente destinato a comprendere il “tutto”, è stato messo in minoranza dalla legislazione speciale, che si arricchisce di giorno in giorno di nuovi “arrivi”. Quella branca della legislazione, che dovrebbe apprestare la sanzione più grave, come extrema ratio rispetto alle altre modalità sanzionatorie (civili, disciplinari, amministrative), in relazione a comportamenti “antisociali” evidenti e indiscutibili, ha invaso campi che non gli sono affatto propri, nella logica dei principi liberali. Sono proliferati gli articoli bis, ter e quater in quel settore legislativo, che per sua natura non dovrebbe inclinare ai repentini cambiamenti e alle novità dell’ultim’ora, posto che i basilari modelli comportamentali, socialmente approvati, si stabilizzano nel tempo ed evolvono lentamente, mentre solo la violazione delle fondamentali norme di convivenza dovrebbe giustificare la sanzione penale.

Accanto all’ipertrofia penalistica la vicenda “Open” ci conferma un’altra verità: che in Italia la res publica ha invaso il campo della res privata. Il dirigismo statale è divenuto incontenibile; sono disciplinati autoritariamente i rapporti di lavoro, l’insegnamento scolastico, le tutele previdenziali etc.; lo Stato non si limita al ruolo di “regolatore”, ma diventa “attore” protagonista in campo economico. In ambito penalistico, l’invasione è certificata dalla vasta area dei reati contro la pubblica amministrazione, nella cui nozione, molto lata, si ricomprendono, non solo gli organi dotati di pubbliche funzioni e potestà, ma anche gli esercenti di un “pubblico servizio”. E chiaramente, se si estendono a dismisura la pubblica funzione e il pubblico servizio, si estende in proporzione l’area d’interesse penalistico afferente ai fenomeni di corruzione e similari. L’inchiesta “Open” ce lo conferma, per il semplice fatto che una vicenda che ruota intorno a un soggetto privato, come una Fondazione, è divenuta penalmente rilevante e di pubblico interesse.

Ciò premesso, le nostre certezze sono finite e cominciano i dubbi.

Le indagini sulla Fondazione “Open” prendono l’avvio da una notitia criminis o sono finalizzate a trovarla?

Tutte le notizie di stampa, pur accolte cum grano salis, convergono nel descrivere un procedimento penale, in fase di indagini preliminari, che prende l’avvio con una vasta “retata”; senza precedenti, per esempio, nel mondo del terrorismo jihadista, la cui pericolosità è certamente superiore a quella di qualsivoglia Fondazione. La ricerca ad ampio raggio di elementi di prova fa nascere il dubbio che le indagini non siano mirate ad un fatto preciso, bensì a un target generico, individuato nell’area politica vicina al senatore Matteo Renzi. Nelle aule universitarie, gli studenti imparano una storia completamente diversa: che le indagini si avviano sulla base di una notitia criminis, riguardante un determinato fatto. Il dubbio è che il fatto debba ancora essere cercato.

Quanto può essere discrezionale l’azione penale “obbligatoria”?

Il primo dubbio ne fa nascere un altro. Se il target è generico, si può pensare che la scelta della Fondazione “Gertrude”, anziché “Proserpina”, sia discrezionale. Ciò potrebbe costituire un vulnus al principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale. È vero che l’azione penale viene esercitata dal pubblico ministero alla fine delle indagini preliminari, dopo l’acquisizione degli elementi di prova; ma è pur vero che, laddove gli elementi di prova sono discrezionalmente cercati a carico di Gertrude, l’azione penale potrà essere esercitata solo nei suoi confronti, non già nei confronti di Proserpina.

I criteri che orientano la scelta del pubblico ministero di avviare le indagini hanno connotazione politica?

È indiscutibile che il target “Open” è politicamente sensibile, per il suo ruolo di finanziatore dell’attività politica del senatore Matteo Renzi (nei confronti del quale non nutriamo alcuna simpatia politica). Ne deriva che il dubbio sulla discrezionalità della scelta del pubblico ministero si risolve nel dubbio che la decisione di avviare le indagini su “Open” sia stata politicamente orientata. Non ne traiamo motivo per parlare di “giustizia a orologeria”, “avvertimenti”, “pizzini” e similari; ci limitiamo solo a constatare che tutta la storia della Repubblica italiana, specialmente la più recente, è attraversata da molteplici vicende giudiziarie politicamente sensibili, al punto da far dubitare che la dea bendata, piuttosto che essere cieca, ci veda da un occhio solo.

Un sistema-Paese nel quale la lotta politica invade le aule dei tribunali può definirsi democratico?

In molti paesi dell’area occidentale democratica, accade che vicende giudiziarie si innestino occasionalmente nella dinamica politica. La disputa politica tuttavia si svolge intorno ai programmi; i contendenti riconoscono il legittimo ruolo degli avversari politici e non li criminalizzano come “corrotti” e “malfattori”. Al contrario, nelle dittature di ogni colore, il “Bene” sta da una parte sola, con la conseguenza che l’oppositore dell’ordine costituito non può che essere un “criminale” o tutt’al più un “pazzo” da ricondurre alla ragione. Ebbene in Italia si è creato una tale “ordinaria” commistione tra vicende politiche e giudiziarie, che la cronaca giornalistica degli avvenimenti politici si immedesima con la cronaca giudiziaria. Può accadere perfino che la lotta alla “corruzione” divenga il principale programma politico di un vasto movimento (5 stelle e dintorni giustizialisti); ciò ovviamente comporta che gli avversari politici sono additati ipso facto come “corrotti”. Da qui il legittimo dubbio che l’Italia non appartenga al novero dei paesi a democrazia piena e compiuta.

La fattispecie di traffico di influenze illecite è conforme ai principi costituzionali?

Dalle notizie di stampa si apprende che tra i reati ipotizzati occupa un posto centrale il traffico di influenze illecite (previsto dall’articolo 346 bis, modificato con la legge n. 3/2019, cosiddetta “spazzacorrotti”). Nella sua originaria formulazione, dovuta alla Legge Severino del 2012, il reato sussisteva solo in quanto i contraenti di un accordo “pre-corruttivo” avessero finalizzato l’influenza illecita a un atto del pubblico ufficiale contrario ai doveri d’ufficio. Oggi il reato sussiste a prescindere dalla connessione finalistica con l’atto antidoveroso del pubblico ufficiale, essendo punito il fatto stesso dell’accordo avente ad oggetto un’influenza illecita. Ne discende che risultano decisivi i confini di questa illiceità in sé, immanente all’influenza stessa, pur finalizzata (per ipotesi) a un atto conforme ai doveri d’ufficio. In un ordinamento, come il nostro, nel quale l’attività di lobbying non è regolamentata, pressoché tutte le influenze, esercitate ed esercitande, potrebbero essere ritenute illecite. Essendo punito il semplice accordo, si potrebbero ravvisare gli estremi del reato nel semplice fatto di un’influenza non ancora esercitata, perfino diretta a far sì che il pubblico ufficiale compia il suo dovere. È lecito nutrire qualche perplessità sulla compatibilità di tale fattispecie di reato coi principi costituzionali.

Quale concezione di democrazia presuppone la criminalizzazione dell’influenza?

È chiaro che molto dipende dall’interpretazione giurisprudenziale degli estremi di liceità dell’influenza. Laddove prevalesse un’accezione lata o latissima dell’illiceità, risulterebbero incrinate le basi stesse della democrazia. È evidente che le influenze più penetranti e causalmente efficienti sono legate alle politiche “concertate”. Nella prassi della “concertazione” è sublimato il riconoscimento de facto dell’influenza esterna che i gruppi di pressione esercitano sul potere legislativo ed esecutivo. Nessuno si sogna di criminalizzare siffatta “concertazione”, della quale sono protagonisti, assieme ai rappresentanti istituzionali (pubblici ufficiali), soggetti non legalmente riconosciuti come i sindacati. Se sono lecite le influenze di questi, perché non dovrebbero essere altrettanto lecite le eventuali influenze di altri soggetti rappresentativi di interessi collettivi? Al fondo, la questione verte sul modello di democrazia. Se si pensa che i soggetti istituzionali, in un modo o nell’altro, agiscano in nome del popolo italiano e nell’interesse della nazione, non si vede perché, in vista dell’emanazione dei loro atti, non debbano trarre indicazioni dai portatori d’interesse (stakeholders). Se si pensa invece, che l’istituzione sia investita di un potere che sovrasta il popolo dei sudditi, è evidente che ogni portatore d’interesse, che tende a influenzare la decisone del pubblico ufficiale, non fa altro che turbare la sua serenità e mettere in pericolo la sua “imparzialità” necessariamente presupposta. Vogliamo dunque una democrazia aperta o una parvenza di democrazia, fondata sulla “concertazione” degli ammessi al tavolo e sull’ingiunzione del silenzio nei confronti di tutti gli altri?

I parlamentari che hanno approvato la legge cosiddetta “spazzacorrotti” ne hanno capito le implicazioni?

La domanda suona retorica. La legge “spazzacorrotti” contiene tanto perle di rara saggezza – una delle quali è la menzionata modifica della fattispecie del traffico di influenze illecite – di evidente ratio “giustizialista”; si amplia l’area della punibilità nei rapporti tra il privato e la pubblica amministrazione, si aumentano le pene, si dispongono misure di prevenzione a somiglianza di quelle riguardanti la criminalità mafiosa e terroristica etc.. Insomma l’amministrazione della cosa pubblica diventa sempre più rischiosa, sia per i titolari della pubblica funzione e del pubblico servizio, sia per i privati destinatari degli atti pubblici. Ciò significa che la politica vede ridotti i suoi spazi di autonomia. C’è da dubitare che i capponi fossero coscienti di dirigersi verso il forno.


di Michele Gelardi