Tutti pazzi per le Sardine

Il dibattito pubblico si è arricchito di un nuovo ballon d’essai: le Sardine. I media ne parlano come di un fenomeno epocale, destinato a mutare il corso della Storia; i sondaggisti almanaccano sulle potenzialità del movimento e su quanti consensi potrebbero riscuotere se si presentassero alle elezioni; gli opinionisti fanno a gara a farne il fattore provvidenziale della politica. Un entusiasmo che, francamente, non condividiamo.

Per dirla tutta, pensiamo che si stia esagerando col dare rilevanza al fenomeno. Certo, il fatto che vi siano persone disposte a radunarsi in pubblica piazza per manifestare un sentire politico è sempre buona cosa per la democrazia. Però, da apprezzarne l’esistenza a farne la raffigurazione plastica del sol dell’avvenire ne corre.

In primo luogo, i numeri sono relativi. Gridare al miracolo partecipativo per la presenza in strada di alcune migliaia di persone può avere un significato se il contesto antropico che le veda protagoniste sia scarsamente popolato. Ma in realtà urbane densamente abitate, quella folla radunata diventa un puntino sulla carta geografica della politica. Queste sardine sono figlie delle grandi città, non sono espressione della provincia italiana che, dal punto di vista della configurazione del profilo socio-culturale della comunità nazionale, pesa quanto se non più degli agglomerati a forte inurbamento. Si dirà: sono giovani. In parte è vero.

Di là dalle cariatidi, reduci dal movimentismo girotondino autoreferenziale dell’ultimo quarto di secolo, che ne affollano le fila si riscontra un basso tasso medio d’età dei partecipanti. E con questo? Da quando il requisito anagrafico da solo conferisce valore a un fenomeno politico? In genere si guarda alle idee. Ma le sardine, che si sono riconosciute in un “manifesto” politico, di idee originali non ne hanno una. Solo alcuni slogan molto laschi: la fede nella politica con la P maiuscola, la voglia di lottare contro chi semini odio e paure, un sacro odio verso i populisti in generale e Matteo Salvini in particolare e l’idea, tra il naïf e il neofuturista, di essere energia pura. Si potrebbe molto ironizzare sul velleitarismo infantile dei risvegliati all’impegno civile, ma sarebbe un errore. Tuttavia, anche a valutarne positivamente l’impatto sulla politica, bisogna sollevare più di un dubbio sul fatto che le sardine di concreto, programmatico, non dicano nulla. Come la pensano sul futuro industriale della nazione? Ci deve essere o va cancellato in nome di un ambientalismo miope e autolesionista? Sono pro o contro le grandi opere e la Tav Torino-Lione? In geopolitica, con chi stanno? Con l’Occidente o con le potenze emergenti del Terzo Mondo? Per loro la Nato è ancora l’ombrello desiderabile per sentirsi protetti dalle minacce altrui o è quel paziente in “stato di morte cerebrale” di cui ha parlato di recente il presidente francese Emmanuel Macron? E l’Unione europea, è il migliore dei mondi possibili o si deve combattere per riformarla dalle radici? E poi, sono per il mercato che si regola autonomamente o tifano perché la Stato non perda il ruolo di regolatore nei rapporti di scambio tra privati?

Di domande ne avremmo moltissime da rivolgere ai capibranco delle sardine, ma confessiamo un forte disagio nell’approcciare un insieme di buona umanità che non si comprende cosa voglia a parte che ostacolare il cammino delle forze sovraniste. Il che ci riporta a un tentativo di collocazione del fenomeno. Le sardine, pur dichiarandosi apartitiche, rilasciano endorsement in favore del candidato del centrosinistra alla presidenza dell’Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini. Jamal Hussein, referente modenese delle sardine, lo ha detto chiaro e tondo: “Portiamo quella piazza che abbiamo creato a Modena, a votare il 26 gennaio, e a votare per chi fino ad oggi ha governato”. Non c’è nulla di male a dichiararsi del centrosinistra, l’importante è non imbrogliare le carte. Le sardine non sono un moto spontaneo venuto fuori dalle viscere della società, ma una resipiscenza della sinistra che prova a spiegarsi il perché non goda del consenso maggioritario del Paese. Le sardine non incarnano la protesta, ma la partecipazione al potere. La loro provenienza non è dalle periferie dell’esistenza ma dal suo centro, nell’accezione che del “centro“ dà Lester Walter Milbrath. Lo scienziato statunitense della politica circoscrive il perimetro della partecipazione, nel modello costruito sullo status socio-economico, alle persone che dispongono di un reddito elevato e di un buon livello d’istruzione, che “svolgono un lavoro non manuale e appartengono ai settori sociali, linguistici e religiosi dominanti”. È l’identikit della sardina. La finalità che persegue tale categoria di partecipanti alla politica non ha come obiettivo il rovesciamento del sistema, come fu per i movimenti studenteschi del Sessantotto (da qui la constatazione del fatto, osservata dal direttore Arturo Diaconale, che fra di loro non vi sia un Mario Capanna e nessuno a tirare le uova ai “signori” della prima alla Scala). Al contrario, essa punta a salvaguardare le risorse di cui dispone mantenendo una posizione di privilegio rispetto al resto della società. Quindi, l’istanza di fondo delle sardine è ispirata a un principio di conservazione dello status quo da opporre a chi provi a metterlo in discussione. Per quanto appaia bizzarro è solo con questa chiave di lettura che può essere compresa l’anomalia di un movimento che scende in piazza non contro le forze al potere, ma per impedire all’opposizione di ribaltare gli equilibri egemonici in essere.

Per dirla con un pizzico di demagogia, tra le sardine non si trovano i cassintegrati della Whirlpool o gli operai prossimi alla messa in mobilità del siderurgico di Taranto, ma i figli di papà che hanno l’avvenire assicurato. Le sardine sono l’espressione paradigmatica della liquidità valoriale della sinistra del nostro tempo storico che, abbandonata la lotta di classe, si è data alla rappresentanza politica dei ceti produttivi garantiti e protetti dagli effetti della globalizzazione. Le sardine sono un fenomeno di sinistra non nel senso tradizionale ma nella rappresentazione riveduta e corretta dal mainstream radical-chic di cosa s’intenda per sinistra. Per questo devono preoccupare elettoralmente? In linea di massima, no. L’acqua in cui nuotano è stagnante. È solo che i media provano a ingigantirne la portata nella speranza di fare aggio elettorale parlando di qualcosa che è potentemente contro la destra e il suo uomo di punta del momento. Liberi di provarci, certi di fallire. La fallacia nell’azione delle sardine sta nel non valutare adeguatamente il grado di consapevolezza della realtà posseduto dalla maggioranza degli italiani. Le sardine veicolano l’agente patogeno che ha devastato la sinistra: la sottovalutazione spocchiosa della capacità di discernimento del popolo. Neanche sono nate e pretendono di rieducare le masse ignoranti che vogliono l’uomo forte al comando. Con tale metodologia di costruzione del consenso, un riscontro elettorale significativo le sardine se lo scordino. D’altro canto, perché chiedere loro di andare contro natura? Le sardine sono sardine e mai saranno delfini. E neppure sirene. Il loro destino non è la storia e neppure l’eterogenesi dei fini: è la padella o le fauci di tonni e pescecani.

Aggiornato il 11 dicembre 2019 alle ore 15:21