Strage di Piazza Fontana, 50 anni di ipotesi indimostrabili

E venne anche il cinquantennale della tragica e tuttora irrisolta strage di Piazza Fontana, 12 dicembre 1969. Come prevedibile è stata occasione per convegni di stampo complottista in cui si sono riciclate tutte le ipotesi indimostrabili partorite a suo tempo all’interno della Commissione stragi del mitico Giovanni Pellegrino. Il quale a dirla tutta, da saggio capo di un organismo durato quasi dieci anni sotto la sua egida, non dava per scontato che la strage di Bologna fosse stata perpetrata da Francesca Mambro e Valerio Fioravanti. Anzi ne aveva sempre sostenuto l’innocenza. Con buona pace della propaganda cerimoniale officiata un po’ a tanto al chilo dal presidente Sergio Mattarella ieri a Milano. A che serve compiacere le persone nelle piazze?

Pellegrino, dopo un’iniziale sbandata per l’inchiesta su Piazza Fontana condotta dal gip Guido Salvini come giudice istruttore di vecchio rito in proroga, si ricredette sull’attendibilità del teste imputato Carlo Digilio. Che, oltre a tirare in ballo l’industriale italo-giapponese Delfo Zorzi – poi assolto – nella seconda metà degli anni Novanta, diede il via al dietrologimo su Mariano Rumor e sull’ex presidente della repubblica, e perseguitato dal fascismo, Giuseppe Saragat, come mandanti morali della strage. Saragat, declamano in quei convegni che di notte manda Radio Radicale, voleva profittarne per instaurare un regime semi presidenziale come aveva fatto anni prima Charles de Gaulle in Francia.

Un’atroce castroneria fino a prova contraria, che persino Pellegrino ritenne di dovere emarginare nella propria relazione finale, pur citando la teoria giudiziaria di Salvini. Piazza Fontana è stato – dopo la strage di Portella della Ginestra (provincia di Palermo), un eccidio ordito dalla banda criminale di Salvatore Giuliano, il 1 maggio del 1947 – il “primo mistero immobile” di quelli “d’Italia”.

Fino a Piazza Fontana era quello l’episodio tragico del Secondo dopoguerra su cui si esercitavano le dietrologie nazionali. Non a caso l’articolo più bello sull’assassinio di Salvatore Giuliano lo scrisse Tommaso Besozzi, un grande giornalista dell’Europeo. Il titolo era emblematico: “Di sicuro si sa solo che è morto”.

Ebbene, tutti questi processi sulle stragi senza colpevoli certi – circostanza che viene colmata dalle certezze storiche di storiografi giudiziari per lo più improvvisati, magistrati o giornalisti che siano – sono stati caratterizzati da una politicizzazione tale che parecchie volte, come per Bologna e per la pista palestinese che è stata oggetto di depistaggio ai danni degli imputati all’epoca neofascisti, sono state trascurati prove o indizi che già all’epoca delle stragi erano sotto gli occhi di tutti.

Così in tantissime occasioni si sarebbe potuto scrivere come bilancio giudiziario di un’inchiesta su quelle stragi, che “di sicuro c’è solo che sono morti”. In pratica, l’averla più o meno consapevolmente “buttata in caciara” per inverare i contingenti teoremi del doppio Stato ha portato nocumento all’accertamento processuale dei fatti. Per questo quasi ogni strage si è trasformata in un “mistero d’Italia. E lo stesso dicasi per tutti gli eventi, invece molto più chiari, legati al sequestro e all’uccisione di Aldo Moro e della sua scorta.

Questi misteri hanno poi partorito le certezze storiche di cui sopra ma i colpevoli raramente sono stati accertati. E anche chi è stato condannato definitivamente deve accontentarsi di sentenze passate in giudicato colme di lacune nelle rispettive motivazioni.

Ora, che questo cinquantennale avrebbe scatenato tutti i complottisti “United of Italy” era cosa prevedibile. Dispiace, invece, che in quei convegni ci sia andata, magari solo per curiosità, a tenere relazioni che si sono mischiate a quelle complottiste, una persona seria e responsabile – e con grande e consapevole sofferenza vissuta pregressa – come Benedetta Tobagi. Verrebbe da chiederle chi glielo abbia fatto fare.

Aggiornato il 13 dicembre 2019 alle ore 19:37