Politica, le sue urla e quelle della tivù

Ci si chiede, in qualche pausa fra un grido e l’altro in tivù, perché un leader come Matteo Salvini debba ricorrere ad un frequentissimo alzamento di toni, in linea con altri colleghi, nel tentativo, quasi sempre riuscito, di rompere la barriera ma anche, di competere, incredibile a dirsi, col conduttore e/o conduttrice. C’è modo e modo, si diceva una volta, di andare in tivù e di esserci, e di parlare. Anni fa quel non facile eppur leggendario modus in rebus trovava un’interpretazione, soprattutto dai politici in tivù, consona non solo alla ragion d’essere e sue finalità di uno strumento di comunicazione di massa, ma in piena sintonia con le idee esposte al pubblico, con i progetti, i programmi. Entrambe le condizioni non ci sono più, sono scomparse, svanite.

Se ricapitoliamo con una rapida sintesi i capitoli della storia politica del Paese, ci si accorge che l’assenza (del modus in rebus televisivo) ha inizio qualche tempo dopo l’avvio del manipulitismo mediatico-giudiziario e, negli anni, si è accompagnata con l’incalzante resa della politica a poteri diversi, a cominciare da quelli esercitanti la giustizia, ma nel quadro di una vera e propria invasione dei suoi spazi da parte della tivù assurta ad arena, ben più che Camera e Senato, degli scontri fra le diverse posizioni. C’è stata in tal modo una progressione fatale verso uno sbocco volutamente sottovalutato dove il pericolo non era e non è che la politica sia divenuta il contenuto di show e spettacoli televisivi ma che questi siano divenuti il contenuto della politica. Non a caso un politico e attore come Ronald Reagan ricordava che “la politica è come un’industria dello spettacolo” e spiegava da buon intenditore che pubblicità, tivù e politica tendevano a confondersi giacché il loro scopo principale “è di piacere alla gente e il mezzo principale è l’artificio. E se dunque la politica è come un’industria dello spettacolo (la tivù) allora l’idea non è di perseguire chiarezza e onestà, ma di apparire come se lo facesse”.

Saremmo curiosi di sapere che ne pensi, dall’oltretomba, l’ex presidente Usa della tivù italiana dei nostri giorni, ma è certo che le sue considerazioni di quei tempi lontani subirebbero un’impennata di stupore. Tanto più disgustato quanto più colpito dal ruolo, ai sui tempi del tutto incredibile, assunto dai conduttori di quegli show che non si limitano ad invadere uno spazio che non compete loro, ma a fare di questo spazio il luogo di una concorrenza funzionale al loro protagonismo politico. Intendiamoci: la conduzione di tanti show (quasi tutti) non ha bisogno delle urla che si levano. Così spesso dai politici “condotti”, ma proprio nello stile (si fa per dire) dei tanti Massimo Giletti e Lilli Gruber ed altri risiede l’abilità nello stimolare un vero e proprio gioco al massacro in cui vengono attirati i protagonisti i quali, quasi sempre per mancanza di idee tipica di chiunque alzi alte grida, ne sono i ben felici partecipanti senza rendersi conto che la loro presenza è sempre più simile a quelli di certi clown finiti in un circo equestre con migliaia di spettatori.

A un conduttore che mette in bella mostra un ex brigatista, non ignorando la portata pubblicitaria che comporta quella presenza, fa da contraltare una conduttrice che si sveste dei panni professionali per vestire quelli sia dell’interruttrice dell’ospite sia del suo nemico politico con domande incalzanti ed abrasive le cui finalità sfociano nell’assunzione di guida indicatrice della buona politica rispetto alla cattiva. Si dirà che questi spettacoli sono inevitabili dato il livello bassissimo raggiunto da movimenti e partiti di oggi, ma la tecnica di cui sopra si espande anche in altre analoghe tipologie spettacolari, con variazioni in cui le urla vengono riservate all’ospite di turno, vedi il caso di Maurizio Paniz che, a proposito dei vitalizi, non era posto in grado di spiegare le sue ragioni subendo un’aggressione verbale manco si trattasse di un criminale appena uscito da Regina Coeli. Le tre donne, fra cui due conduttrici e un’esponente del M5s, erano simili a tre scatenate erinni tacitanti l’ospite con argomentazioni gridate e venate di demagogico populismo frutto, spesso, d’ignoranza dei veri termini della questione. E il conduttore? Era l’interprete genuino del famoso detto: laissez faire, laissez passer. E la politica? Svanita.

Aggiornato il 19 febbraio 2020 alle ore 13:02