L’allenatore nel pallone

Giuseppe Conte che, nella narrazione di regime, mostra la faccia cattiva all’Unione europea sulla questione Eurobond, mi ricorda quel tipo della barzelletta: “Quante me ne hanno date, ma quante gliene ho dette”.

In realtà, il Premier, al quale indubbiamente va riconosciuto più acume di chi l’ha portato a Palazzo Chigi, ha compreso benissimo che l’intimazione di sfratto gli è stata notificata ed è solo questione di (poco) tempo.

Come avviene per le panchine calcistiche traballanti, la strada è segnata. Una volta pubblicata l’intervista al successore designato (Mario Draghi), con l’immancabile indicazione di un salvifico cambio di modulo, e incassato il favore della critica (Quirinale, Bce e cancellerie europee), restano da convincere solo i tifosi, i quali dopo settimane di retorica patriottarda sono comprensibilmente un po’ confusi, ma nessun timore: ancora qualche giorno di emergenza sanitaria ed economica e, nella migliore storia patria, passeranno d’emblée da Piazza Venezia a Piazzale Loreto.

Del resto, l’agenda dell’ex presidente della Bce è talmente tanto convincente (e, sopra mercato, tra Draghi e Conte vi è una tale differenza di spessore) che risulta difficile non plaudire al preannunciato cambio della guardia. Quel che preoccupa, invero, è l’immutabile palude italiana. Già i soliti teorici della spesa pubblica improduttiva hanno cominciato ad immaginare un aumento senza limiti del debito pubblico dello Stato e di cancellazione di quello dei privati. Insomma, si pensa di cambiare l’allenatore purché non si tocchino i calciatori (bolsi) e gli schemi di gioco (quantomeno logori).

No cari miei, così la retrocessione non ce la toglie nessuno.

La situazione è gravissima e se ne esce solo con un radicale cambio di paradigma. A produrre ricchezza sono le imprese (imprenditori e lavoratori dipendenti, senza alcuna distinzione) e le Partite Iva, con buona pace della sterminata platea italica di tax spenders riottosi ad ogni cambiamento, arroccati come sono all’apparente certezza del 27 del mese.

Sveglia, verrebbe da dire, ché lo scenario è chiaro a chi voglia vederlo. Per assenza di domanda molti di quei produttori di ricchezza o chiuderanno i battenti o si indebiteranno per non farlo. Ma, poiché nessuno potrà finanziare un debito privato tanto grande, dovrà intervenire il bilancio dello Stato: meno tasse a chi produce, più spesa pubblica per aiutarlo ad affrontare la crisi e, inevitabilmente, meno regalie assistenzialistiche quando non clientelari.

Draghi, insomma, non ha promesso il paradiso artificiale di un socialismo reale 2.0, con le banche centrali che stampano moneta, gli Stati (in verità lo Stato, perché certe fole ce le raccontiamo solo noi) che sperperano ricchezza in redditi di cittadinanza, pensioni a chi non ha mai versato un contributo e improbabili nazionalizzazioni di impresa (leggasi alle voci Alitalia, Ilva, ecc. ecc.) e il popolo che vive felice con le saccocce rigonfie di manna pubblica come lo Zalone di “Quo Vado?”.

In conclusione, se – come un Commendator Borlotti qualsiasi – dobbiamo cambiare l’allenatore solo perché non vogliamo sostituire il centravanti, anche se non la mette più in porta neppure con le mani, lasciamo Draghi ai suoi ozi; retrocederemo e pure malamente, ma potremo continuare a dar la colpa all’arbitro.

Aggiornato il 27 marzo 2020 alle ore 13:42