Conte, il decreto e la Carta

venerdì 27 marzo 2020


Che combina Giuseppe Conte? Davvero, con tutta la buona volontà, non si capisce. E non si capisce perché forse neppure lui sa bene e capisce fino in fondo cosa sta davvero facendo, giorno dopo giorno.

Dopo una vera alluvione di decreti amministrativi a sua firma, alcuni dei quali contraddicevano ordinanze dei sindaci o dei presidenti di Regione, mentre altri si contraddicevano fra di loro, adesso partorisce, insieme al Consiglio dei ministri, un decreto legge.

Si tratta – eccettuando il decreto “Cura-Italia” che, disponendo di ingenti risorse finanziarie non poteva certo ridursi ad un semplice atto amministrativo – del primo decreto legge emanato da quando ci si trova in situazione di diffusa pandemia: per tutto il tempo precedente, Conte non ha fatto che emanare semplici decreti a sua firma.

Siccome nel nostro ordinamento il Presidente del Consiglio non gode – per fortuna – di un autonomo potere immediatamente normativo, quei decreti erano identificabili come semplici provvedimenti di carattere amministrativo, qualitativamente non diversi da un’ordinanza di un sindaco o di un presidente di Regione.

Ecco dunque il pasticcio giuridico e istituzionale propiziato in queste settimane dal Governo, che ha spesso forzato oltre ogni misura i limiti della nostra Costituzione.

Innanzitutto, adottare la forma giuridica del provvedimento amministrativo – sia pure emanato dal capo del Governo – allo scopo di ridurre o eliminare diritti di libertà individuali (uscire di casa, girare per il territorio, ecc.), significa purtroppo calpestare deliberatamente la Costituzione, che invece non lo consente in alcun modo. Ma significa anche partorire degli aborti giuridici, cioè provvedimenti nati già morti e perciò fragilissimi, e dunque esposti alla possibile reazione di chicchessia.

Immaginate cosa sarebbe accaduto se una persona qualunque, ritenendo – a torto o a ragione – di esser stata lesa nei suoi diritti fondamentali (per esempio quello di mettere in commercio la propria mercanzia), avesse impugnato uno o più di questi provvedimenti amministrativi davanti al Tar. Questo Tribunale non avrebbe potuto che dargli ragione e annullare il provvedimento del capo del Governo, viziato dall’aver conculcato inammissibilmente quei diritti che la Costituzione intende tutelare in quanto fondamentali per uno Stato di diritto e perciò, alla resa dei conti, del tutto illegittimo.

Riuscite ad immaginare cosa ne sarebbe venuto? Quale caos istituzionale e sociale?

Meglio non pensarci neppure. Occorre dire perciò che un minimo di normale cautela istituzionale avrebbe dovuto consigliare a Conte di non ricorrere al provvedimento amministrativo per adottare le misure necessarie a combattere la pandemia.

Ed ecco la seconda osservazione critica. Conte ha cercato di giustificare la propria scelta, nel corso della sua audizione in Parlamento, affermando che siccome nel nostro sistema non esiste uno strumento normativo per fronteggiare una urgenza epidemica, allora ha preferito il provvedimento amministrativo, in quanto adatto alla bisogna e molto flessibile.

Qui davvero non capisco cosa il premier voglia dire. Infatti, nel nostro sistema esiste, ed è ben conosciuto, un tipico strumento normativo per fronteggiare le emergenze di ogni tipo e non soltanto quelle epidemiche: la decretazione d’urgenza, che non a caso si definisce in questo modo.

La Costituzione prevede infatti che nel caso in cui una particolare emergenza non consenta di ricorrere al procedimento normale di confezionamento ed approvazione della legge – strumento normativo ordinario – si può utilizzare il decreto legge, emanato dal Consiglio dei ministri ed immediatamente operativo, salvo che va portato davanti al Parlamento e convertito in legge entro 60 giorni dalla sua emanazione.

E allora? Perché Conte vi ha fatto ricorso soltanto adesso, emanando il decreto legge del 25 marzo? Perché non ha usato questo strumento dotato di immediata e piena forza normativa fin dal primo momento?

Riesco ad immaginare una sola possibile risposta: Conte non voleva coinvolgere in alcun modo il Parlamento il quale, nel caso del decreto legge, avrebbe dovuto convertirlo in legge e comunque avrebbe potuto introdurre modifiche, integrazioni, soppressioni, nel corso di un salutare dibattito alla luce del sole fra maggioranza ed opposizione.

Insomma, il Parlamento avrebbe svolto il suo mestiere, ma senza interferire sulla immediatezza e sulla efficacia del decreto legge, il quale sarebbe subito entrato in vigore, esplicando i propri effetti.

Ma proprio qui sta la differenza che probabilmente Conte intendeva evitare – utilizzando un semplice provvedimento amministrativo – e che invece la Costituzione dichiara inevitabile.

Detto in altri termini, Conte ha aggirato la Costituzione, rischiando parecchio non solo per la fragilità intrinseca dello strumento prescelto, ma anche per i suoi limiti ineludibili: proprio per questo, in quei decreti amministrativi Conte ha dovuto ricorrere, quale norma deterrente di carattere sanzionatorio, al reato previsto dall’articolo 650 del Codice penale, vale a dire alla generica inosservanza di un provvedimento della pubblica autorità, illecito contravvenzionale dalla sanzione tenue e per nulla in grado di scoraggiare gli eventuali trasgressori, come si è assai bene constatato.

Infatti, un semplice provvedimento amministrativo non può prevedere nuove figure di reato e neppure imporre sanzioni penali: il risultato è stato che, fino al 25 marzo, trasgredire i decreti governativi era quasi divenuto un divertimento nazionale al quale si dedicavano migliaia di persone, organizzando pic-nic sulla spiaggia o gite fuori porta, per quanto in modo del tutto sconsiderato e folle. Se invece Conte avesse da subito adottato lo strumento del decreto legge, dotato di autentica forza imperativa, molto probabilmente tali effetti indesiderati sarebbero stati assai più contenuti.

Ma per ciò fare bisognava poi passare dalla verifica parlamentare. E allora? La nostra non è forse una Repubblica parlamentare?

Purtroppo, invece, Conte, volendo fare tutto da solo, ha adottato un comportamento simile a quello che sarebbe stato legittimo e comprensibile in una Repubblica presidenziale e tuttavia senza poterne utilizzare gli strumenti che da noi non esistono. Insomma, è andato alla guerra contro un gigante, utilizzando un temperino… perché il nostro ordinamento non gli consentiva altro.

Sicché, il decreto legge emanato da ultimo suona quasi come una sorta di sanatoria successiva a quanto di giuridicamente errato e incomprensibile Conte aveva fatto in precedenza. Ma è una sanatoria impossibile, la quale, invece di rimediare agli errori e al grave “vulnus” inferto alla Costituzione, finisce col metterne ancor più in luce gli effetti negativi.

Tutto questo, francamente, ci poteva essere risparmiato.


di Vincenzo Vitale