Dopo il Coronavirus il problema è la Germania

L’Eurogruppo della scorsa settimana è stato un fallimento. Alcuni Paesi del Nord, guidati dalla Germania, si sono messi di traverso per impedire soluzioni solidaristiche della crisi economica che minaccia gli Stati maggiormente colpiti dal Coronavirus.

Il Consiglio dei Capi di Stato e di Governo dei Paesi dell’Ue è rinviato di due settimane. In linea di massima, un compromesso verrà trovato perché l’alternativa potrebbe essere la fine del progetto europeo. Tuttavia, non si può dire che l’esito dell’ultimo Eurogruppo non abbia provocato una grande amarezza e giganteschi dubbi sul futuro comune europeo. Passi la miopia dei piccoli Paesi del Nord, ma quei no pronunciati dalla Germania all’adozione degli eurobond a garanzia dei debiti che contrarranno gli Stati bisognosi di massiccia liquidità per rimettere in moto l’economia sono un macigno precipitato sul sentimento di solidarietà multilateralista che dovrebbe essere il pilastro dell’Unione.

Si obietterà: i “virtuosi” del Nord non vogliono caricarsi sul groppone i debiti delle cattive gestioni del Sud, a meno di imporre agli Stati a caccia di credito regole molto stringenti di austerity nella spesa pubblica. Resta, però, moralmente e politicamente inaccettabile che proprio Berlino impartisca lezioni di rigore finanziario e di rispetto delle regole. E poi, da quale cattedra lo farebbe? Forse da quella che in un mondo alla rovescia premia l’ingratitudine? Dimentica Berlino che ripetutamente in passato ha dovuto chiedere, ottenendola, la clemenza degli Stati suoi creditori per il pagamento dei danni di guerra risalenti al Primo conflitto mondiale (1914-1918)? Nella conferenza di Londra, il 28 febbraio 1952, il Governo federale tedesco ottenne che “i pagamenti non avrebbero dovuto mettere in pericolo il benessere della popolazione nel breve termine e la possibilità di ricostruire l’economia e la società nel lungo periodo” (Timothy Guinnane). La Germania aveva sospeso i pagamenti ai creditori nel 1934, a seguito della salita al potere di Adolf Hitler. Secondo alcune stime i debiti prebellici accumulati da Berlino erano di 13,5 miliardi di marchi oro, maggiorati di 2,6 miliardi di interessi. Con l’aggiunta dei risarcimenti dovuti per i danni causati con la Seconda guerra mondiale, l’ammontare complessivo era lievitato di altri 16,2 miliardi marchi. Grazie all’Accordo di Londra le due voci di debito furono ridotte rispettivamente a 7,5 e 7 miliardi di marchi. Gli Stati creditori ebbero lo sguardo talmente lungo da consentire a Berlino di pagare l’ultima rata del debito il 3 ottobre 2010, versando 70 milioni di euro agli Alleati della Prima guerra mondiale in quota residua di interessi e capitale per le obbligazioni estere emesse nel 1924 e nel 1930. A 92 anni di distanza dal 1918.

Si sono mai chiesti i tedeschi cosa sarebbe stato di loro se i creditori avessero opposto il medesimo diniego che in questi giorni la Germania ha sbattuto in faccia ai Paesi messi in ginocchio dalla pandemia? Si dirà: la Germania teme che lo sforamento del Deficit rispetto al Pil possa innescare la spirale di un’inflazione incontrollata. Perciò, reputa un tabù inviolabile il tetto del 3 per cento all’oscillazione del deficit consentita in sede comunitaria. Più propriamente, va detto che il ferreo contenimento del deficit la Germania lo impone agli altri Stati dell’Ue, ma non a se stessa.

Al solo affacciarsi della crisi economica da Coronavirus il Governo di Berlino ha approvato un pacchetto di aiuti alla piccole e medie imprese tedesche per un ammontare di 750 miliardi di euro che ha richiesto una manovra aggiuntiva di Bilancio per 156 miliardi di euro. La maggiore spesa ha comportato un’impennata del Deficit al 4 per cento in rapporto al Pil, che è un numero ben superiore al tetto del 3 per cento. Ma non è l’unica libertà che la Germania si concede. Da anni accumula plusvalenze nel saldo delle partite correnti di import-export, superiori al limite fissato dalla Ue del 6 per cento per evitare destabilizzazioni interne all’area comunitaria. Nel solo 2018 è stato realizzato un avanzo nella bilancia commerciale del 7,9 per cento, per un controvalore di 250 miliardi di euro. Un surplus verso l’estero che tiene in salute i conti pubblici tedeschi ma fa malissimo alle altre economie dell’Ue. La Germania vende i suoi prodotti ma non compra quelli degli altri. Come classificare un simile comportamento in un acquis comunitario? Per non parlare della disparità nel mondo del credito e del diktat di Berlino che ha sottratto il controllo sulle Sparkassen, le proprie Casse di Risparmio, alla Banca centrale europea.

Sempre in tema di rispetto delle regole, la Germania ha preteso che tutti i Paesi Ue si allineassero alle politiche sanzionatorie contro la Federazione Russa. In particolare l’Italia, alla quale Bruxelles su input tedesco ha letteralmente impedito la costruzione del gasdotto “South Stream” che avrebbe portato il prodotto petrolifero dalla Russia direttamente in Italia senza passare per l’Ucraina, con uno straordinario abbattimento dei costi della materia prima energetica. Si dirà: quando si è in un’Unione si rispettano le decisioni prese dalla maggioranza dei partecipanti. Peccato, però, che ciò non sia valso per la Germania. Nel mentre s’imponeva l’interruzione all’Italia, il “North Stream”, che attraverso il Mar Baltico porta gas russo in Germania, ha continuato a funzionare a pieno regime. Non solo. Berlino, violando ogni accordo preso in sede Ue, sta ultimando, d’intesa con Mosca, il raddoppio della pipeline denominata “North Stream 2” e la cui inaugurazione è prevista per la fine del 2020.

In questi giorni la nave russa “Akademik Cherskiy” sarà nelle acque del Baltico per completare la posa in mare delle tubazioni per i restanti 160 km al completamento dell’opera. In altri tempi, saremmo già in una situazione prebellica. Se oggi non finisce a cannonate con i tedeschi è perché c’è la Nato, c’è il gendarme Usa e perché gli equilibri di potenza sono cambiati: l’Europa non è più l’ombelico del mondo. Cionondimeno, l’arroganza tedesca costituisce un serio problema per il futuro dell’Unione. Come avvenne nel secolo scorso, la Germania è tornata ad essere un fattore di destabilizzazione del quadro geopolitico internazionale. Per quanto altro tempo dovrà esserlo? Siamo più espliciti: per quanto ancora ci toccherà pagare per l’arroganza egoistica tedesca? Non vorremmo un giorno essere additati come la generazione che consentì troppo frettolosamente la riunificazione della Germania. Al tempo della caduta del Muro di Berlino, politici avveduti del rango di Giulio Andreotti avvertirono del pericolo che una Germania di nuovo unita avrebbe costituito per il mondo. Col senno di poi avremmo fatto meglio a tenere divisi i due Stati tedeschi per evitare che, con la riunificazione, rispuntasse l’indomita vocazione imperialista germanica. Berlino di fatto guida dell’Europa. Ma lo fa sacrificando il bene comunitario quando sono in gioco le grandi scelte strategiche. Per questo motivo potrà pure essere uno Stato dominante ma non sarà mai un Paese leader, riconosciuto e amato. L’unico risultato che otterrà sarà l’ennesima sconfitta. La posta in palio adesso è la sopravvivenza dell’Unione europea. Di questo passo non occorreranno sovranisti o euroscettici per la demolizione. Avrà pensato a tutto la leadership di Berlino. I “crucchi” proprio non ce la fanno a condividere un destino comune con altri Paesi, alla pari. E, francamente, adesso iniziano a stancare.

Aggiornato il 30 marzo 2020 alle ore 11:22