Deutschland über alles

Appena ieri l’altro, a proposito dell’implementazione della linea di credito straordinaria del Mes (Meccanismo europeo di stabilità), abbiamo ringraziato il ministro delle Finanze olandese, Wopke Hoekstra, per aver fatto chiarezza sulle intenzioni ostili del Governo di cui fa parte. Oggi tocca ringraziare la Corte costituzionale tedesca per aver detto una parola chiara sul rifiuto della supremazia dell’Unione europea e del principio di condizionalità, strumento giuridico del processo d’integrazione comunitario, rispetto alla sovranità statuale. La Corte di Karlsruhe è stata chiamata ad esprimersi sulla legittimità costituzionale della partecipazione della Germania al programma della Bce, lanciato nel 2015 dall’allora presidente Mario Draghi, noto come Quantitative easing (Qe). L’Alta Corte, pur escludendo un manifesto contrasto del programma con le norme dell’Ordinamento giuridico tedesco, ha deciso di procedere a un chiarimento sulla questione sollevata.

Per questo motivo ha chiesto alla Banca centrale europea (Bce) di trasmettere entro tre mesi una documentazione che “in una maniera comprensibile e con argomentazioni” spieghi le finalità che una tale politica monetaria si sia proposta di conseguire. L’Alta Corte richiede inoltre la dimostrazione degli effetti economici prodotti e la proporzionalità dell’intervento realizzato rispetto alla condizione economica dei Paesi dell’area Euro nel periodo considerato. A volerla rendere in metafora, la decisione dei giudici tedeschi è la classica bomba ad orologeria piazzata sotto le fondamenta dell’architettura comunitaria. Un capolavoro di sovranismo praticato e non vacuamente sbandierato che è la cifra autentica dei pezzi pregiati di questa tigre di carta che chiamano Unione europea.

Di là dalla questione specifica che la sentenza affronta, e che avrà ricadute devastanti per il futuro comunitario, ciò che la Corte di Karlsruhe ha sancito scolpendolo sulla pietra è che l’ordo ordinans non è un prius rispetto all’ordo ordinatus, non soltanto nelle regolamentazioni non devolute alla competenza comunitaria sovranazionale. Ne consegue che le normative emanate dall’Unione europea non godono di alcun automatismo applicativo presso la Repubblica Federale di Germania ma sono integrabili nell’Ordinamento giuridico nazionale a condizione che non ledano l’identità costituzionale dello Stato, in particolare in materia di politica monetaria e di Bilancio pubblico, con ciò facendo muro al rischio d’intrusione di “una forza politica e giuridica in grado di condizionare le scelte e le istituzioni degli stati membri” (Morrone). Prima ancora dei tedeschi dovremmo essere noi italiani a esultare per la sentenza. Si potrebbe dire che finalmente c’è stato un giudice a Berlino che ha rimesso le cose a posto facendo strame di anni di sortite inaccettabili di Bruxelles nei tessuti produttivi di alcuni Paesi membri presi di mira. In primis, l’Italia.

Abbiamo ancora nella mente i chilometri di carta su cui gli eurocrati hanno scritto le regole più assurde e inique che si potessero concepire. Alcune andate a segno, altre miseramente fallite. Dalla lunghezza delle zucchine, ai calibri dei piselli, alle curvature dei cetrioli, al diametro delle vongole e poi ai tentativi di stabilire le modalità di cottura della pizza o al tipo di olio da utilizzare per fare la cioccolata. In questi anni abbiamo subìto angherie normative anche perché abbiamo avuto una classe politica prevalentemente di sinistra che ha preferito mettersi al servizio dei poteri forti di Bruxelles piuttosto che difendere l’interesse nazionale. Quante volte ci siamo sentiti rispondere da governanti inetti e pavidi: “ce lo impone l’Europa”. Si è arrivati a violare l’identità costituzionale del nostro Paese, con l’inserimento in Costituzione dell’obbligo del pareggio di bilancio (legge costituzionale 1/2012), per stare ai diktat di Bruxelles. Abbiamo patito tutto ciò facendo il male e non il bene degli italiani pur di stare in riga da perfetti soldatini di marzapane in un esercito di pastafrolla.

Adesso arriva da Karlsruhe una sentenza che meriterebbe una dose supplementare di “Bella ciao!” per il suo portato liberatorio. Invece, tutto l’entusiasmo viene prontamente annichilito dalla dura realtà. L’Alta Corte tedesca si è pronunciata non per fare un favore ai popoli europei vessati dall’arroganza dei poteri centrali dell’Ue ma per ribadire la superiorità tedesca. Dalla sentenza emerge chiaro un concetto: la Germania condivide le scelte in sede europea a condizione che queste non intacchino l’interesse nazionale. Se lo fanno, non valgono. Ma quale Paese può giungere a un tale grado di spregiudicatezza se non quello che si senta intimamente e convintamente padrone del gioco? La Germania raccoglie sistematicamente i benefici derivanti dalle scelte comunitarie ma pretende da tutti gli altri tranne che da se stessa una cieca osservanza delle regole.

Tale è il comportamento di un capo che ha poca dimestichezza con la solidarietà e molta con l’egoismo. Nessuna meraviglia per la pronuncia di Karlsruhe. Si tratta della trasposizione sul piano giuridico-costituzionale di un pensiero politico che viene da lontano. Ora, i tedeschi si arrabbiano quando se lo sentono dire ma l’odierna visione egemonica riguardo all’Europa è simile a quella prefigurata nella Germania hitleriana alla fine degli Anni Trenta del Novecento con il “Piano Funk”, dal nome del ministro delle Finanze del Reich, Walter Funk, (1938-1945) che lo predispose. La Germania, a stretto rigore lessicale, è storicamente europeista. Ma la concezione di un nazionalismo europeo in chiave germano-centrica è riaffiorata, dopo anni di forzato letargo, non appena le condizioni complessive dell’apparato produttivo nazionale le hanno riconsegnato la leadership sui competitori interni al mercato comunitario. Sono per questo da condannare i tedeschi? Certo che no.

Essi fanno il loro mestiere di conquistatori al quale hanno da sempre aspirato, pur senza successo. Il problema non è loro, è semmai nostro. Siamo noi italiani, una volta dismessa quell’ipocrita messinscena della fratellanza europea che non esiste se non nei sogni di qualche servo sciocco di Bruxelles, a dover accettare o negare un futuro da Quarto Reich. In fondo, se accettassimo una volta per tutte di sottometterci al giogo di Berlino, da sudditi dell’Oltralpe meridionale, potremmo campare meglio. Rivendicare l’indipendenza della sovranità nazionale potrebbe costarci caro e farci vivere malamente. Quanti oggi sarebbero disposti a barattare la propria tranquillità e il proprio benessere, sia pure sorvegliati dal rigido moralismo della Germania luterana e protestante che abborrisce il perverso edonismo mediterraneo, per difendere principi obsoleti come libertà, indipendenza, dignità nazionale, amor patrio e simili astruserie da vecchi arnesi post-risorgimentali? Berlino non ha mai negato che il futuro del mondo stia negli equilibri di forza tra superpotenze planetarie.

Mentre gli Usa, la Cina, la Federazione Russa lo sono, l’Europa delle piccole patrie non lo è. Ed è perciò necessario che lo diventi al più presto. Non nella versione condominiale di oggi, ma in quella di un nuovo Reich che si differenzierebbe dai tentativi del passato solo per il fatto di riconoscere una limitata pari dignità alla Francia nella cogestione della politica estera e della Difesa, in particolare in Africa e nel Vicino Oriente, tradizionali target dell’imperialismo francese. Non prendiamoci in giro: l’Unione europea o sarà germanica o non sarà. Sta a noi scegliere se starci facendo atto di vassallaggio a Berlino o provare a sopravvivere sulle nostre gambe, senza alcuna garanzia di riuscirvi. A riguardo, siamo con Indro Montanelli quando scriveva: “Le battaglie si fanno in quanto degne. Non per la garanzia di vincere la guerra”. Chiara l’antifona?

Aggiornato il 08 maggio 2020 alle ore 09:55