Il concorso esterno del cronista nella carriera del pm

Raramente un articolo poteva essere più esplicito di quello scritto venerdì 22 maggio 2020 da Piero Sansonetti su “Il Riformista”, giornale che da tempo dirige. E altrettanto raramente se ne leggono di così ben scritti e intellettualmente onesti. Una rara avis nel mare magnum dell’editoria retoricizzata ai tempi del coronavirus.

E di cosa parlava questo articolo per chi avesse fatto l’errore di non leggerlo? Dei pessimi conflitti di interesse tra i magistrati della pubblica accusa onnipresenti in televisione e sui giornali con le rispettive inchieste o manovre politiche e i più importanti cronisti di giudiziaria dei cosiddetti giornaloni e di altri quotidiani magari meno grandi ma che vanno per la maggiore nell’era di “manettopoli”.

Tutte cose poi venute fuori nei giorni seguenti sia pure a spizzichi e bocconi.

E questi conflitti di interesse appaiono eclatanti a sfogliare le intercettazioni telefoniche e le chat captate da un trojan inserito a suo tempo nel telefonino dell’ex capo dell’Anm, Luca Palamara, caduto in disgrazia e ignorato dai suoi stessi colleghi – dopo averli rappresentati – una volta sputtanato a causa di altre intercettazioni. Che – al contrario di quelle con i giornalisti di cui parla Sansonetti nell’articolo citato – sono state invece pubblicate da tutti i maggiori quotidiani qualche mese fa.

Tutti hanno visto nei giorni scorsi quella terribile puntata di “Non è l’Arena” in cui è scoppiato il casino tra il ministro manettaro Alfonso Bonafede e un ex pm del famigerato “Processo Trattativa” che oggi siede al Csm. Il più puro che lo ha quasi epurato in simbolico ricordo del detto di Pietro Nenni. Da allora si sono aperte le cateratte. Le conclusioni cui arriva Sansonetti a proposito dell’autocensura preventiva dei giornali e dei giornalisti sulle chiacchiere in chat con Palamara – o di Palamara con altri magistrati in rapporti con lui – sono tutte condivisibili: una casta protegge l’altra. E tutte e due si auto-proteggono buttandola in caciara con i politici o con quegli esponenti sempre della magistratura, o delle forze dell’ordine o dello stesso giornalismo, che non si allineano a clima forcaiolo che vige dal 1992.

L’unica indipendenza della magistratura da tutelare – secondo questi sepolcri imbiancati – è quella di chi accusa. Chi giudica spesso viene linciato. Senza che l’Anm o il Csm abbiano nulla da ridire. E questo può valere per un Tribunale di sorveglianza o per uno del riesame. Ma anche per un’intera sezione della Corte di Cassazione. Chi si ricorda, tanto per non fare nomi, del povero Corrado Carnevale?

Allo stesso modo la libertà di stampa in cui credono i giornalisti dei giornalini che non pubblicano le intercettazioni quando li riguardano – con il consenso dei rispettivi editori – è quella di pensarla come il pm di turno. E di moda.

Fossero stati ancora vivi Leonardo Sciascia, Enzo Tortora o Marco Pannella forse qualcuno anche in Parlamento avrebbe rotto la consegna del silenzio. Di certo si potrebbe fare una metafora (che usa lo stesso linguaggio da professionismo antimafia e anti-tutto) per descrivere questo conflitto di interessi che certe volte arriva a configurare una vera e propria ferita eversiva per la nostra Costituzione.

Il rapporto malato tra certi giornalisti e certi pm potrebbe configurare una sorta di “concorso esterno nel determinare la carriera del singolo magistrato”. O magari un “traffico di influenze”. E vale anche il viceversa: il singolo magistrato concorre esternamente ad aumentare la fama del giornalista. Usandolo per fare uscire solo le notizie care all’accusa. Un gioco ormai scoperto.

Che poi, in mezzo a tutto ciò, in questo tritacarne orwelliano, qualche vita diventa un trascurabile inconveniente di questa maniera di fare giornalismo e di condurre certe inchieste.

 

 

Aggiornato il 26 maggio 2020 alle ore 16:00