Il corto circuito di Davigo

lunedì 1 giugno 2020


Piercamillo Davigo è persona illustre, da anni noto al grande pubblico, componente del gruppo di magistrati di “Mani pulite” presso la Procura di Milano nei primi anni Novanta, poi giudice di Cassazione e adesso componente del Consiglio Superiore della Magistratura.

Spesso invitato ad intervenire nel corso di trasmissioni televisive di approfondimento politico, soprattutto sui temi della riforma della amministrazione della giustizia, è sempre molto determinato nei giudizi, di frequente orientati a forme di giacobinismo giudiziario: e di ciò viene rimproverato dai suo avversari o dai semplici interlocutori.

Poche sere fa, nel corso della trasmissione televisiva su La7, condotta da Corrado Formigli, Davigo ha fatto alcune affermazioni che hanno dato la stura a molte polemiche.

In particolare, egli ha detto che in Italia si sbaglia ad attendere la definizione dei processi attraverso le sentenze, mentre basterebbero le accuse, suffragate anche per mezzo di semplici indizi. Ma qui, preferisco non commentare queste affermazioni sulle quali le polemiche si sprecano e che per certi versi si commentano da sole.

Vorrei invece spendere poche parole per lumeggiare il paragone fornito da Davigo per spiegare il senso delle affermazioni sopra riportate, perché il vero problema si ritrova qui. Egli ha esemplificato il suo pensiero, affermando che se un suo ospite, dopo cena, tentasse di svignarsela portando con sé alcune posate d’argento, per evitare di invitarlo di nuovo, non occorrerebbe attendere la sentenza della Cassazione; come non occorrerebbe aspettare una sentenza definitiva, per non affidare una bambina di sei anni a un soggetto già condannato in primo grado per pedofilia.

Davigo ricorre a questi esempi, allo scopo di far intendere la fragilità della presunzione di innocenza, la quale, a suo parere, va messa da parte almeno in alcuni casi, quando cioè la prova dell’illecito sia evidente, come appunto sarebbe – secondo lui – nei casi sopra indicati.

Orbene, la cosa preoccupante sta nella circostanza che Davigo non sembra rendersi conto del corto circuito intellettuale in cui è caduto, e che bisogna invece mettere al centro dell’attenzione.

Non ci vuol molto a capire, infatti, che nei due esempi proposti da Davigo, a cogliere l’evidenza della prova sono, nel primo, la stessa parte lesa (il padrone di casa, proprietario delle posate d’argento) e, nel secondo, assolutamente nessuno, in quanto dopo una sentenza di primo grado che lo condanni per pedofilia, neppure il padre della bimba di sei anni potrà essere sicuro della colpevolezza di costui: si ricordi che in Italia oltre la metà delle sentenze rese in primo grado viene poi annullata o riformata in secondo grado di giudizio.

Nel primo esempio, Davigo ha sbagliato quanto alla persona, scambiando la parte lesa – che non può mai giudicare danno subito, facendosi giudice in causa propria – con il giudice – chiamato a giudicare i danni subiti da altri, cioè le vittime dei reati, proprio perché egli non è parte lesa. Nel secondo, invece, ha sbagliato quanto al contesto ambientale, scambiando una casa privata – ove ciascuno è libero di pensarla come vuole e quindi, per prudenza, di non affidare una bimba di sei anni a chi sia stato condannato in primo grado per pedofilia – con un’aula di Tribunale – ove invece tutti i partecipanti al processo hanno il dovere di considerare la condanna in primo grado come non definitiva e ribaltabile: in entrambi i casi, Davigo sembra aver dimenticato – pericolosamente – che per valutare le prove di colpevolezza e per verificare se esse possano vincere la presunzione di innocenza, è già stato inventato, da tempo immemorabile, un congegno sociale e pubblico – e non privato, come lui sembra prediligere – che si chiama processo penale, disciplinato da varie e preziose regole di funzionamento.

Si dà il caso inoltre che – come suggestivamente osservava Giuseppe Capograssi – “il processo è un procedere attraverso segni che significano, ma non sono la cosa significata”: questo per dire che il processo, attraverso “segni” – cioè le prove, documenti, testimonianze, relazioni, perizie – serve a tentare di ricostruire come andarono le cose: e tuttavia, nella consapevolezza di come quei segni possano solo “significare” quelle cose, ma non possano consegnarcele nella loro assoluta ed oggettiva realtà storica.

Davigo dimentica che il processo si fa – invece di non farsi – per sottoporre ad una prova di resistenza l’accusa, fino al punto da consentirle di vincere la presunzione di innocenza.

E che nel processo di diritto vale il principio – ignorato nei processi politici di stampo sovietico – “nemo iudex in causa propria”, che vale che nessuno può giudicare una vicenda che lo riguardi di persona, a casa propria, dovendo invece rimettere ad un giudice terzo la soluzione più corretta del caso.

Ecco perché gli esempi addotti da Davigo sono del tutto inadatti allo scopo, che lui avrebbe voluto raggiungere, quello cioè di escludere la presunzione di innocenza, valorizzando l’accusa invece che il giudizio: perché quella non potrà mai soppiantare questo; perché il sentimento privato (del padrone di casa o del padre della bimba) non può mai prendere il posto del ragionamento pubblico (del giudice terzo ed imparziale): in una parola, perché non si può in modo sbrigativo “privatizzare” la giustizia come fosse cosa di parte.

Neppure Davigo può farlo impunemente. Peraltro, egli sembra farlo senza avvedersene: questo è il vero problema che però ci fa capire come Davigo ragiona e ha ragionato per anni nel corso della sua attività. Siccome per anni Davigo ha presieduto una sezione della Corte di Cassazione, c’è da rimanere esterrefatti. E, prima ancora, c’è da atterrirsene.


di Vincenzo Vitale