Varato il decreto “Semplificazioni”, forse

L’altra notte la montagna ha partorito un topolino. Dovremmo essere contenti della notizia perché una nascita è sempre un evento positivo. Ma non in questo caso. Il topolino di cui parliamo è il Decreto legge sulle “Semplificazioni del sistema Italia” licenziato dal Governo dopo una nottata di periglioso travaglio. Il premier Giuseppe Conte lo aveva pubblicizzato come il rimedio miracoloso a tutti i mali dell’economia italiana; l’antidoto alla funesta previsione dell’Ocse di perdita di -11,3 per cento di Pil sul 2019 (in caso di scenario favorevole cioè se verrà scongiurata la seconda ondata di contagio del virus nel prossimo autunno); la penicillina per guarire il tasso di disoccupazione prossimo a sfondare il muro del 10 per cento, secondo stime Istat; l’anti-emorragico per arrestare la caduta della produzione per cui, secondo rilevazioni della medesima fonte, “Il pericolo di chiudere è più altro tra le micro imprese (40,6 per cento) e la piccole (33,5 per cento) ma è “significativo” anche tra le medie (22,4 per cento) e le grandi (18,8 per cento)”. Invece, quei 48 articoli di cui si compone il testo del Decreto sono un cataplasma di mucillagine applicato al petto di un paziente infartuato.

Anche il più ignorante di rimedi medici capirebbe che si tratta di buggeratura: quand’è che una coronaria occlusa è stata disostruita con un pannicello caldo? Che è la medesima cosa che propone il riformismo sbianchettato del Conte bis. Con una macroscopica aggravante. Il provvedimento varato l’altra notte reca la dicitura infida del “salvo intese”, che tradotto nella lingua dei comuni mortali significa: tutto quello che c’è scritto può essere riveduto e corretto, anche stravolto, prima della sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Quindi, il Consiglio dei ministri ha fatto le ore piccole per nulla? Non proprio. Serviva di spargere fumo negli occhi già irritati degli italiani e mettere giù un pezzo di carta, in forma di lista dei buoni proponimenti, da dare al premier perché lo portasse in giro per le capitali europee a dimostrazione di quanto sia efficiente, operoso, decisionista il suo Governo. Speriamo per lui che a Lisbona, Madrid, Amsterdam e a Berlino, tappe del suo prossimo tour, nessuno degli interlocutori conosca tanto bene l’italiano da comprendere esattamente cosa sia contenuto nel Decreto dei miracoli, perché finirebbe a pernacchie. Ora, posto che ciò che si legge nel Decreto non sia il verbo definitivo, ciò che salta agli occhi è lo sforzo acrobatico compiuto dagli estensori del testo di legge per neutralizzare gli effetti paralizzanti di quel mostro giuridico che si chiama Codice degli appalti – al secolo Decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 – senza urtare la suscettibilità della componente “dem”. Non dimentichiamo che il Partito Democratico quell’obbrobrio giuridico lo ha pensato, scritto, discusso e approvato quando, tanto per cambiare, era alla guida del Paese senza avere il consenso della maggioranza degli italiani.

La politica, rectius: la cattiva politica, si caratterizza anche per essere il luogo di elezione dei paradossi. Accade così di assistere a un bizzarro rovesciamento delle parti in commedia. Nei panni dei semplificatori, intenzionati a spezzare le catene con le quali una politica ostile agli investimenti e alla modernizzazione infrastrutturale del Paese, tiene in ostaggio un segmento decisivo del ciclo economico, s’infilano incredibilmente i Cinque stelle, mentre chi tira il freno è quel Partito democratico che a parole si proclama amico delle imprese, ma che nell’anima profonda mantiene un fare sbirresco verso l’intrapresa privata. In realtà, non è che i grillini siano rimasti folgorati da una qualche illuminazione. La propensione ad accettare che nel proprio lessico oscurantista facesse capolino la parola “deroga” (onnipresente nella prima parte del decreto) è motivata dal sacro fuoco della paura di essere annientati nelle urne per la straordinaria sequela di castronerie pseudo ideologiche inanellate sulle politiche degli investimenti infrastrutturali e sulle opere pubbliche. I “No Tav”, “No Tap”, “No Gronda”, “No Ilva”, “No Ponte sullo Stretto”, “No tutto” sono pronti a trasformarsi nei tedofori della fiaccola cementizia pur di restare a galla e salvare la cadrega.

Sarebbe l’ennesima inversione a “U” di un movimento politico che non avendo radici non ha spina dorsale. Perché meravigliarsi? Erano partiti per demolire l’Europa matrigna e affamatrice del popolo italiano e adesso con l’aristocratica Ursula Von der Leyen sembrano gli scodinzolanti Welsh Corgi della regina Elisabetta II. Comunque, le giravolte spericolate saranno pure un problema loro? Ciò che all’opinione pubblica interessa è il risultato. Se venisse confermata la scelta di far ripartire le opere pubbliche con sostanziali deroghe al Codice sugli appalti, almeno fino al 31 luglio 2021 com’è scritto nella bozza di decreto circolata e l’annessa decisione di circoscrivere il perimetro d’applicazione della norma penale sull’abuso d’ufficio, saremmo già contenti. Non che il bicchiere non resti mestamente vuoto per più della metà, ma com’è prassi di buon senso: piuttosto che niente, meglio piuttosto. Tuttavia, ribadiamo, che si tratta di un puro esercizio accademico perché nulla è deciso in via definitiva. I media che fanno da megafono del regime hanno tenuto ad evidenziare, come segno tangibile di una rivoluzione in corso, il fatto che sia stato stilato un elenco di 50 grandi opere da avviare immediatamente, e che Giuseppe Conte nella conferenza stampa di ieri ha fatto lievitare a 130 di interesse strategico. Peccato che quella lista non risulti allegata allo schema di Decreto varato ma compaia a margine del Piano nazionale di riforma (Pnr), altro baule ricolmo di specchietti e collanine che il premier porterà con sé nel tour delle capitali con la speranza che gli altri leader lo scambino per un forziere pieno d’oro. In concreto, trattasi dell’ennesima grandinata fuori stagione di promesse declinate al futuro remoto per nascondere sotto lo scroscio delle buone intenzioni e delle belle parole la diafana anatomia di una progettualità politica acefala e senza nerbo.

In condizioni ordinarie, per le opposizioni sarebbe un gioco da ragazzi smontare l’illusionismo del Conte prestigiatore. Purtroppo, in un momento tanto grave per la nazione, le cose si complicano anche per chi non sia corresponsabile dei trucchi della maggioranza. Le destre, in particolare, avranno non pochi problemi a spiegare agli italiani come dire no a qualcosa che in apparenza sembra bellissima ma è fumo nella sostanza. La gente è stanca e spaventata. Ha bisogno di essere rassicurata, non terrorizzata. D’altro canto, non può essere turlupinata e il silenzio dell’opposizione, sebbene motivato da una nobile causa di pietas, potrebbe essere scambiato per omissiva complicità. Come uscirne? Non sempre si hanno ricette pronte all’uso. L’unica strada praticabile sembra essere per Matteo Salvini e Giorgia Meloni (Silvio Berlusconi non ha bisogno della segnaletica stradale, visto che lui ama guidare a intuito) è di smascherare il Governo usando le sue stesse armi. Non un’opposizione frontale, dunque, ma una malandrina disponibilità a un dialogo costruttivo e stringente con tutti i pezzi della maggioranza, su ogni punto e su ogni virgola del decreto. In gergo pokeristico sarebbe un chiamare un continuo “vedo”, ad ogni giocata dell’avversario. Con quale obiettivo? Il migliore: mandarli in crisi rivedendo, rettificando, aggiungendo tutto ciò che serve a dare corpo a un provvedimento-farsa. Due i risultati che si potrebbero cogliere: una legge realmente efficace e l’acuirsi delle liti già affiorate tra soci di una conventicola divisa su tutto tranne che sulla brama di potere.

Aggiornato il 09 luglio 2020 alle ore 09:57