Il Capitalcomunismo

C’è qualcosa di preoccupante che si sta insinuando dietro la pandemia, con le leggi liberticide che stanno minacciando la democrazia, qualcosa che se ne serve per affermarsi più rapidamente, ma che già da anni preesisteva e cercava di imporsi in molti modi, con l’appiattimento dei gusti e la globalizzazione delle produzioni, con la proliferazione dei regolamenti e le limitazioni alla proprietà, l’omologazione dell’informazione e la crisi delle indipendenze nazionali. Un qualcosa di ancora non ben definito, ma che sembra aver bisogno dei grandi numeri e dell’annullamento delle differenze per poter funzionare, della trasformazione delle persone, da cittadini orgogliosi e indipendenti, in consumatori storditi e massificati. E standardizzati. Nell’Europa continentale dopo la Grande guerra e in tutto il mondo, dopo la Seconda, si è cominciato con gli stili di vita più esteriori, o imposti brutalmente come la giubba militare cinese o “prescritti” da una moda pervasiva come i jeans, ma si è progressivamente poi arrivati a tutti i beni di largo consumo, come le automobili, tutte ormai simili perché disegnate da computer in base all’aerodinamica, o ancora fino all’eccitazione indotta per l’acquisto di beni inutili e costosi. Si è provato a camuffare un po’ l’uniformizzazione, con le camicette che ammettono inessenziali ma appariscenti variazioni e le automobili che presentano nuovi colori elettrici, però sotto l’apparenza di una confusa babele, (così indifferenziata e parcellizzata da risultare amorfa) la sostanza industriale è divenuta sempre più la stessa.

Naturalmente resistevano e resistono i pezzi unici, fatti a mano, in ogni campo, ma per pochi, per pochissimi, la piccola e media borghesia è stata privata dei suoi simboli, dei suoi segni distintivi, dei suoi stili di vita. E oggi, con il mortificante obbligo delle mascherine, abbiamo perso anche la faccia. La proprietà poi è stata sempre più vanificata. Planimetrie, schedature, autorizzazioni, obblighi di conformità, tassazioni anche senza reddito immobiliare, controlli incrociati, sorveglianza dall’alto, inviti alla delazione, hanno di fatto trasformato il diritto di proprietà privata in una sorta di semplice concessione. La media borghesia è stata progressivamente privata del suo piccolo regno autonomo e, per questa strada, della sua voglia di indipendenza. La grande informazione, quasi tutta orientata dal Politically correct, è ormai strettamente coordinata da un meccanismo quasi automatico di richiami autoreferenziali: la tal testata cita la tal catena televisiva come fonte di grande autorevolezza e a sua volta viene ricordata con toni encomiastici da un tabloid che avrà il suo spazio su quella televisione, in una società circolare di “mutua ammirazione” che serve molto bene a creare falsi miti e fabbricare ingiustificate notorietà e ancora meglio ad organizzare il finto sdegno e il disprezzo organizzato contro chi osa opporsi. La fine di ogni riferimento delle monete a parametri neutrali, indipendenti dalle banche centrali, come per secoli è stato l’oro (largamente indipendente, perché detenuto per la maggior parte da milioni di individui, piuttosto che nei caveau pubblici) ha reso il potere finanziario letteralmente proprietario del reale valore dei quattrini che ciascuno ha in tasca, senza che ci si possa praticamente opporre.

Il passaggio dalla moneta cartacea a quella elettronica ha poi perfezionato il controllo totale, sottoponendoci tutti ad una “tracciatura” da stato di polizia che va a completare le decine di milioni di telecamere, fisse o satellitari, che ci spiano in ogni atto della giornata. La incredibile pervasività delle leggi e della burocrazia ha di fatto forzato ogni azienda, piccola o grande, pubblica o privata, alla commistione obbligata con il potere, creando non solo un’infinità di occasioni di corruzione-concussione, ma limitando ogni reale indipendenza della libera impresa e, contemporaneamente, anche ogni imparzialità dello stato nelle sue articolazioni. La rinuncia sempre più marcata delle democrazie occidentali ai principi liberali, segnata anche dal proliferare quasi inarrestabile dei puri reati d’opinione escogitati dal Politically correct, contemporaneamente alla scoperta fatta dal comunismo cinese che i “capitalisti di stato” possono essere molto più utili del Capitalismo di Stato, ha fatto sì che i sistemi economico-politici comincino ad assomigliarsi, nel nome di una globalizzazione totalizzante e contemporaneamente oggetto di uno scontro feroce. Osservandone le caratteristiche, io chiamo tutto ciò “Capitalcomunismo”, perché ha le caratteristiche di massificazione del comunismo e tende a stroncare chiunque si opponga, con l’uso però degli strumenti del grande capitale finanziario.

L’unico esempio storico che può venire alla mente di grande industria e grande finanza private, ma completamente asservite e militarizzate dallo stato (quello della Germania nazionalsocialista) non regge realmente, perché troppa è stata l’evoluzione tecnica e il disegno strategico sottostante, a differenza del sogno imperialista di dominazione mondiale, appare avere piuttosto caratteristiche indefinite, erratiche, come dominate dal caso. Una intuitiva e rozza ribellione, da destra come da sinistra, ha cercato negli anni la spiegazione di tutto ciò nella teoria dei complotti, delle oligarchie, delle banche o del “grande vecchio”, naturalmente senza trovarlo mai. Ora il “grande vecchio” invece forse c’è, è immateriale, ma c’è. È l’algoritmo. Affidiamo a macchine “simil pensanti” sempre più decisioni, che si tratti di ricerche di mercato, di ottimizzazione di prodotti, di gestione del traffico, di strutture sanitarie, di rapporti sociali, di speculazioni di borsa o sistemi d’arma, cullandoci nell’illusione che le decisioni finali restino comunque in mani umane, quando invece la forza della finta obbiettività digitale impone le scelte. E presto, molto presto, non saremo più nemmeno in grado di conoscere la genesi delle decisioni, che verranno determinate da computer programmati da computer. Come nel profetico Tempi Moderni di Charlie Chaplin, le macchine tendono a fare dell’uomo una macchina. E gli orecchianti che si credono tecnici moderni o addirittura scienziati, si accodano plaudenti. E il brutto è che non è affatto vero che scelte così concepite siano almeno le più giuste, perché la pura tecnica digitale è incapace di sinapsi psicologiche o di ponderazione di valori diversi, sembra poter indicare cosa fare per azzerare una pandemia (ma solo dai dati che possiede, senza conoscerla veramente) però senza capacità alcuna di considerare altri valori, come la libertà, la felicità o considerazioni filosofiche sulla caducità della vita umana o su una vita degna di essere vissuta.

E ancora peggio se si pensa alla guerra, se viene ridotta ad un puro calcolo probabilistico di vincerla. L’insofferenza dell’interconnesso e globalizzato sistema bionico uomo-macchina verso ogni forma di opposizione che sorga spontaneamente qua e là, sotto varie forme che definirei di liberalismo nazionalpopolare, trae origine dall’essere vista solo come contraddizione da eliminare. La fine di ogni autonomia dalla rete e dai microchip in tutte le attività manifatturiere, dalle grandi fabbriche ai semplici meccanici (chi può più, autonomamente, riparare un’automobile?) rende il sistema produttivo a rischio e iper condizionato, mentre l’incapacità di “pensare” realmente porta a cercare di razionalizzare meccanicisticamente un mondo soprassaturo, senza, ad esempio, la capacità di alzare lo sguardo verso l’ipotesi di colonie spaziali. Questi sono i portati di un macchinismo senza pensiero. Non penso che per l’uomo sia giusto e lecito porsi il dilemma biologico se il soggetto autonomo sia la formica o il formicaio e allora chi vuole provare difendere la sua individualità, voti, come cittadino, chi si oppone alla globalizzazione e compri, come persona, un pezzetto di terra. Magari risparmiando su smartphone, gadget e monopattini.

Aggiornato il 22 luglio 2020 alle ore 10:57