Su bonus e piatti di fagioli

venerdì 7 agosto 2020


Molti governi hanno usato e abusato dello strumento dei bonus, ma quello in carica sta dimostrando al riguardo una vera e propria specializzazione, sfornandoli, per di più, senza soluzione di continuità. Sono suoi il bonus vacanza, i bonus tablet, baby sitting, moneta elettronica, pc, auto elettriche, monopattini, il bonus 100 euro e molti altri che, qua e là, ha introdotto o sta per introdurre al dichiarato scopo di incrementare i consumi e incentivare la crescita.

A determinare l’esecutivo in questo senso non è solo l’emergenza economica, ma anche e forse soprattutto la sua vocazione iperstatalista. È possibile che alla base di questa abbuffata di incentivi vi sia una speciale combinazione ideologica, una miscela di idee distorte che pescano nell’altrettanto distorta applicazione delle teorie keynesiane sul moltiplicatore della spesa e delle teorie sugli effetti del debito.

Si continua a credere, da un lato, che la spesa finanziata in deficit, compresa quella corrente, produca conseguenze simili a quella finanziata con risorse proprie dello Stato, raccolte cioè con le tasse gravanti sulla ricchezza prodotta dal Paese; dall’altro, che la crescita passi principalmente dai consumi e dunque che gli incentivi alla domanda in forma di bonus siano lo strumento più adatto allo scopo. E ciò perché capaci di incrementare, per l’effetto moltiplicatore, il reddito nazionale.

Semplificando molto, il ragionamento sembra essere questo: stimolando i consumi aumenta la produzione industriale e quindi aumentano le ore lavorate nelle fabbriche e con esse gli stipendi dei lavoratori, e via via. Il fatto, poi, che i bonus siano finanziati in deficit è irrilevante: quel che conta è che i consumi si mettano finalmente in marcia. Il resto, poi, vien da sé, a cascata, e anche il debito piano piano si ripagherà.

Le cose, però, in concreto, non stanno in questi termini e non vanno in questa direzione. Anzitutto, se la spesa per i bonus è finanziata in deficit, la loro ripartizione tra i consumatori o i lavoratori non comporta la contestuale distribuzione di risorse proprie dello Stato, ma solo la distribuzione di denaro preso in prestito. Ciò significa che questo denaro dovrà essere prima o poi restituito e che su di esso la collettività dovrà pagare interessi fin da subito.

Le opzioni per restituire e pagare sono sempre le stesse: ridurre la spesa in altri comparti, aumentare la tassazione ordinaria dell’Irpef, dell’Iva o di altre imposte, introdurre nuovi tributi, come un’imposta patrimoniale, contrarre ulteriore debito o rinegoziare il vecchio, vendere i gioielli di famiglia.

Queste prospettive sono accuratamente nascoste al corpo elettorale. Nel medio periodo, invece, è molto probabile che trovino realizzazione. Il motivo sta nel fatto che al debito per bonus – come ad altri debiti – non corrisponde, perché non vi può corrispondere, il simmetrico e meccanico sviluppo dell’economia.

Si deve dire con schiettezza, infatti, che politiche simili a quelle di questo Governo non hanno mai fatto crescere i consumi in misura almeno sufficiente per ripagarne il “costo” e mai determinato una significativa crescita. Lo stesso accadrà con i nuovi bonus.

Per un verso, i soldi distribuiti, messi in busta paga o risparmiati dal consumatore per il concomitante uso dell’incentivo, si disperderanno, come nel passato, in rivoli diversi dai consumi o si indirizzeranno su beni prodotti in altri Paesi del mondo; per un altro verso, l’incremento del debito acceso dallo Stato per ottenere il prestito non sarà compensato dal simmetrico sviluppo dell’economia nazionale.

È la storia, compresa quella recentissima, a far credere che le cose andranno quasi certamente nello stesso verso del passato. Per convincermene è sufficiente guardare all’andamento dei consumi nel 2019. Nonostante i miliardi distribuiti tra incentivi e sussidi, i consumi sono diminuiti dello 0,1 per cento e il Prodotto interno lordo è aumentato soltanto dello 0,2 per cento, poco più di 5 miliardi. Il debito, però, è salito di 30 miliardi, ossia del 2,7 per cento del Pil, dei quali 9 per il bonus degli 80 euro e altri 9 per il reddito di cittadinanza.

I bonus o almeno la stragrande maggioranza di essi sono, in realtà, come piatti di fagioli. Gli statalisti li propongono perché facili, facilissimi da cucinare e in grado all’apparenza di saziare gli appetiti di alcuni gruppi sociali. Pochi di quei dirigenti, però, si preoccupano di inserirli in una dieta alimentare adeguata, capace di scongiurare gli spiacevoli, ma inevitabili effetti collaterali che i fagioli portano con sé. E, cosa ancor più preoccupante, nessuno di essi è disposto a ricercare alternative alimentari in grado di sostituirli.

Buona fagiolata a tutti, allora.

(*) agiovannini.it


di Alessandro Giovannini