Chi é causa del suo mal...

Trovo decisamente incredibile che molti commentatori, per non dire tutti, denuncino con sorpresa l’indisponibilità di troppi giovani a rispettare le regole necessarie per il contenimento dell’attuale pandemia. Alcuni provano ad indicare in una malintesa libertà individuale l’origine del problema ma, poi, proprio non riescono a vedere da dove questa forma di fraintendimento effettivamente arrivi.

Il fatto è che, dal ‘68 in poi, la libertà è stata concettualizzata come una proprietà ovviamente legittima dell’uomo ma senza alcuna insistenza sulla responsabilità che dovrebbe accompagnarla. Questa brillante impresa si è vista all’opera su mille piani partendo dal mondo universitario nel quale la libertà ha preso la forma delle tendenze più stolte, a cominciare dalla predisposizione di “piani di studio” individuali, cioè fatti attraverso la “libera” scelta dei corsi da seguire o da evitare - possibilità per fortuna fortemente limitata nelle facoltà più, diciamo, delicate, come medicina o ingegneria.

Si è poi scambiata la libertà di associazione studentesca con l’arbitrio e talora la violenza nei rapporti col corpo accademico o associazioni di colleghi non disposte a seguire il pensiero unico del “movimento”. Lo stile complessivo ha persino comportato la scomparsa dei gesti tradizionali più semplici ma anche simbolicamente significativi, come l’alzarsi in piedi quando in aula entra il professore. Un gesto, questo, che rividi manifestarsi, questo sì con sorpresa, nella mia prima lezione in una università californiana, nel lontano 1982, ma che, in Italia, é invece definitivamente scomparso. Anche fuori dall’università del resto, gli “stili” di comportamento di larga parte dei giovani contemporanei, anche se fortunatamente non di tutti, si concretizzano troppo spesso con la sciatteria, la spavalderia o atteggiamenti e abbigliamenti provocatori che, personalmente, ritengo semplicemente di pessimo gusto.

In una parola, da almeno tre generazioni molti giovani sembrano intendere la trasgressione come valore e la disciplina come disvalore, al punto di identificare la prima con la libertà e la seconda con un bieco autoritarismo liberticida. Il tutto, dando per scontato che qualcun altro debba provvedere al loro benessere e alla loro sicurezza al fine di poter proseguire liberamente lungo la stessa strada. Alla fine, essi non sono affascinati dalla Follia di Erasmo da Rotterdam ma solo dalla ben più banale follia del sabato sera, delle movide e delle mode. Va anche sottolineato che, se è vero che ogni generazione vede nei giovani qualche forma di ribellione verso ciò che è stato realizzato dalle generazioni precedenti, oggi essa è più massiccia e più “strutturale” grazie alla sua rapida diffusione attraverso i mezzi di comunicazione e grazie all’amplificazione che riceve da fonti variamente interessate a cavalcarla.

La tendenza trasgressiva non è una concezione che mette al centro di tutto l’individuo perché, in realtà, al centro c’è il “gruppo”, ossia l’aggregazione dell’individuo in piccoli o grandi “greggi” in cui la propensione libertaria individuale cede il passo all’arroganza del collettivo, col risultato che il rispetto per valori o regole torna ad avere qualche validità solo in circostanze nelle quali non c’è alternativa, come fermarsi, di norma, se il semaforo è rosso.

Non sorprende, quindi, che la questione delle discoteche (sic!) sia stata al centro per una decina di giorni di polemiche di ogni genere che hanno visto, ancora una volta, come nel ‘68, vari politici e commentatori affannarsi a difendere il “diritto” dei giovani, poverini, a sgranchirsi le gambe e a distruggere il propro udito in quelle camere del rumore che hanno sostituito da tempo le più umili, ma più sane, balere di campagna.

C’è però da chiedersi cosa abbiano detto e fatto i genitori delle migliaia di giovani che hanno affollato per un paio di settimane le discoteche. La domanda è d’altra parte puramente retorica perché le generazioni “trasgressive” hanno generato anche la pressoché totale scomparsa del principio di autorità non solo degli adulti in generale, della scienza o del Governo ma, appunto, anche dei genitori. I quali, del resto, sono spesso figli o nipoti di persone che, nel ‘68, hanno partecipato o contribuito alla “liberazione” dei giovani dal giogo insopportabile della tradizione e delle sue istituzioni.

Mario Draghi ha ragione nel sostenere che i giovani vanno aiutati di più, ma a cominciare dall’educazione di base e non solo da quella professionalizzante o dai sussidi finanziari. Chi e come debba o possa farlo è drammaticamente problematico. Ma occorre farlo, prima che i principi e i valori occidentali vengano surclassati da quelli, forti e per ora robusti, di altre civiltà che, persino durante la pandemia, sembrano non aver dimenticato il valore dell’obbedienza e del rispetto per la libertà altrui.

Aggiornato il 25 agosto 2020 alle ore 10:52