La Destra plurale a Firenze: insieme per la vittoria

Domani sera i leader della destra plurale si presenteranno insieme all’ultimo grande comizio di piazza prima dell’apertura dei seggi. Sarà a Firenze. Era scontato che la location conclusiva dovesse essere individuata sul ciglio dell’ultima linea di difesa della sinistra, dove l’Arno si fa novello Piave. Se cade la “rossa” Toscana viene giù tutto. È ciò che è scritto sulla chiamata alle armi dei riservisti del Partito democratico, ordinata da Nicola Zingaretti per sostenere il candidato Eugenio Giani, che ha lo stesso appeal di un bradipo. Segno che quello che sta correndo lungo le schiene dei capataz progressisti è più di un flebile brivido di paura. Gli arroganti “compagni” hanno avvertito il senso di distacco che la propria gente manifesta verso un campo nel quale di ideale è rimasto assai poco e che si è involuto in sistema di potere, quando non in comitato d’affari. L’orgoglio di esseri “rossi”, la diversità morale di berlingueriana memoria, il mito partigiano dell’ora e sempre Resistenza!, Bella ciao, le feste de L’Unità, è chincaglieria trapassata. La si tira fuori alla bisogna perché serve a nascondere la mediocrità di una classe dirigente di sinistra che, di là dagli slogan e dall’odio irredimibile nei confronti dei nemici politici, non è stata in grado di elaborare un’accettabile visione di futuro per l’Italia.

Anche usare la carta dell’antifascismo per fermare l’avanzata della giovane Susanna Ceccardi non sta funzionando, come dimostra la fredda accoglienza riservata dai toscani alle Sardine. La nuova Volante rossadella sinistra, schierata in Emilia–Romagna per bloccare il passo alla ruspa salviniana, è approdata sul versante tirrenico con le polveri bagnate. Sardine, centri sociali e altre aggregazioni “benemerite” hanno fatto flop non riuscendo a convincere i toscani che i problemi non sono la crisi economica, la chiusura delle aziende, il crollo dell’occupazione, l’inaccessibilità del mondo del lavoro alle giovani generazioni, il cattivo funzionamento della scuola e della giustizia, lo scadimento della qualità della vita dei ceti medi e popolari, ma è Matteo Salvini. Il cattivone che non vuole accogliere i migranti. Domani sera la destra, da un’evocativa “Piazza della Repubblica” dove si affacciano le suggestive sale del “Caffè le Giubbe Rosse ritrovo di cultura e di spiriti liberi culla ai primi del Novecento del futurismo fiorentino, farà sentire la sua voce. Che aprano bene le orecchie quelli asserragliati nei palazzi del potere, refrattari alle istanze di cambiamento che il popolo, quella roba sconosciuta alle élite del progressismo, ha espresso convintamente. Domani sera il segretario della Lega, Matteo Salvini, la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, e Antonio Tajani per Forza Italia parleranno. E ci sarà una nazione ad ascoltarli. L’augurio è che sia una festa delle libertà. Non si tratta di un auspicio formale: la preoccupazione che qualcosa possa andare storto c’è.

È concreto il timore che lo squadrismo militante della sinistra si metta all’opera per rovinare la festa alla destra. Lo abbiamo visto più volte lungo il corso della campagna elettorale. Manifestazioni violente, attacchi fisici, boicottaggi, intimidazioni per spaventare i cittadini desiderosi di ascoltare i programmi presentati dal leader leghista, si sono ripetuti in numero tale da far sospettare dell’esistenza di una regia occulta, attivata per impedire all’avversario più temuto di raccogliere consensi. Da Torre del Greco a Pontassieve abbiamo assistito a episodi violenza che nulla hanno a che fare con il confronto democratico. Grave è ciò che è accaduto, ma ancor più grave è stato il silenzio, quando non il becero giustificazionismo, con cui politici di sinistra ed esponenti del mondo radical chic hanno avallato le aggressioni al leader leghista. Le complicità cementate in nome di un’infondata primazia morale spaventano. Non è solo in gioco l’incolumità di Salvini, ma si corre il rischio che colpiscano al cuore della democrazia nel nostro Paese.

La fase di svolgimento dei comizi elettorali è componente funzionale dell’esercizio della sovranità popolare. Questo principio è il pilastro della nostra Carta costituzionale. Se dovesse essere abbattuto crollerebbe la forma democratica dello Stato. Perché non resti una vuota enunciazione di principio, l’esercizio della sovranità si sostanzia nel voto. Che non significa semplicemente l’atto meccanico di riporre la scheda nell’urna. Anche tutti i momenti pubblici che precedono l’ingresso nella cabina elettorale concorrono all’esercizio della sovranità. La partecipazione a un comizio elettorale, da ascoltatore o da oratore non fa differenza, ne fa pienamente parte. E provare, con la forza o con l’intimidazione, a impedire che dei cittadini possano informarsi sui programmi elettorali dei candidati, a nostro avviso, dovrebbe configurare una specifica fattispecie di reato, da punire con un bel po’ di anni di galera: attentato all’esercizio della sovranità popolare. Se la sinistra avesse la coscienza a posto dovrebbe promuovere l’introduzione nell’Ordinamento giuridico di questa tipologia di reato. Sarebbe un’occasione per dimostrare in maniera inequivoca di essere dalla parte della democrazia e della libertà.

Piuttosto che baloccarsi con leggi stupide che se la prendono con quattro poveracci che vendono cianfrusaglie ispirate al Duce; piuttosto che evocare la minaccia del ritorno del fascismo per ogni marachella ingigantita ad arte dai media, i “compagni” si impegnino a togliersi di dosso la gora fangosa della tentazione autoritaria che fa capolino sul campo progressista con preoccupante frequenza. La sensazione è che questi qui, morto il comunismo, crollato l’impero del sol dell’avvenire, siano ancora ossessionati dal fantasma di Vladimir Lenin e dalle sue soluzioni liberticide per la conquista dell’egemonia. Se per fascismo s’intende la violenza organizzata allo scopo di prevaricare gli avversari politici, di “fascisti” si sono visti solo i facinorosi dei centri sociali e dintorni. Ancora abbiamo negli occhi le scene di guerriglia urbana, i sassi, le molotov, le saracinesche dei negozi distrutte, le auto in fiamme, dell’11 marzo 2017 nell’accogliente città partenopea, quando Matteo Salvini tenne il suo primo comizio napoletano alla Mostra d’Oltremare. Eravamo lì quel giorno acre di fumi dei lacrimogeni e di suoni urlati delle sirene dei celerini e delle autoambulanze, in un tempo sospeso che uno scienziato pazzo aveva ricacciato indietro agli anni Settanta, anni di piombo. Non vorremmo rivivere a Firenze la medesima violenza.

Vogliamo credere che la ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, abbia fatto il suo dovere impartendo agli organismi di polizia precisi ordini a riguardo. Perché questa volta sarebbe un atto criminale ben più grave della “guerra” napoletana, vista la natura elettoralistica della manifestazione. Questa volta le autorità di Governo e le forze presenti in Parlamento non se la caverebbero con un pilatesco “ma anche”. Qui il diritto al dissenso non c’entra nulla. Conta la forza della ragione che sta sempre dalla parte della libertà. Perché come scrisse la compianta Oriana Fallaci: “Ove c’è raziocinio c’è scelta, ove c’è scelta c’è libertà”. La sinistra rispetti la voglia di partecipazione dei cittadini che non le sono organici; rispetti il desiderio degli avversari di uscire di casa per andare ad ascoltare i politici con le cui idee essi sono in sintonia. In fondo, quando la gente manifesta pacificamente è la democrazia che si fa bella. E domani, a Firenze, facciamo che sia bellissima.

Aggiornato il 18 settembre 2020 alle ore 09:56