La Lega prepara la svolta sbagliata?

La destra, nel suo complesso, ha una singolare propensione all’autolesionismo. Riesce a farsi male da sola, anche quando ha il vento in poppa. Dopo le regionali, poteva starci che in Forza Italia, a giudicare dai numeri della débâcle elettorale, si scatenasse il si-salvi-chi-può. Ma che il disorientamento contagiasse la Lega, non uscita male dalle urne, lascia sgomenti. Matteo Salvini ha attraversato gli ultimi 6 anni della vita di questo Paese passando da una vittoria all’altra, fino a portare un partito screditato dagli scandali e messo in crisi dal mancato raggiungimento degli scopi statutari a essere la prima forza politica. Un successo fondato sulla geniale intuizione di riposizionarne l’asse strategico da sindacato dei territori del Nord-Nord-Est (secessionista) a movimento di respiro nazionale (euroscettico). La svolta sovranista ha incrociato la domanda di affrancamento dalla subalternità al fronte franco-germanico, emersa in una porzione significativa dei ceti medi tradizionali sparsi sull’intero territorio nazionale.

L’impossibilità a raccogliere il consenso maggioritario degli italiani è stata determinata dalla compresenza sulla scena di due soggetti politici affini al suo populismo-sovranismo: il Movimento cinque stelle e Fratelli d’Italia. L’acme dell’euroscetticismo è stato toccato con le elezioni politiche del 2018. Se, per esercizio di stile, sommassimo i voti ottenuti dai partiti critici verso Bruxelles si scoprirebbe che, in quel momento storico, la maggioranza degli elettori era dalla parte dei populisti. Poi, il Cinque stelle ha ribaltato il suo programma, schierandosi con i poteri forti europei. A difendere il campo degli eurocritici sono rimasti Lega e Fratelli d’Italia. Oggi, i rumors danno per imminente una svolta trasformistica del partito di Salvini nei rapporti con le grandi famiglie politiche europee. Portabandiera del cambio in corsa di strategia è il vice-segretario leghista, Giancarlo Giorgetti. Lui, che si occupa delle relazioni estere del partito, la mette giù così: “Se vorremo in futuro governare, Matteo (Salvini, ndr) dovrà incontrare Draghi e poi chiedere l’iscrizione al Ppe”. L’idea non è tutta farina del suo sacco ma segue un’azione di martellamento, avviata dai “gattopardi” del potere nostrano su Matteo Salvini. Ha cominciato Angelo Panebianco con un articolo sul Corriere della Sera dello scorso 3 agosto, dal titolo “Ritorna il partito del debito di Stato”. Nello scritto non si parla esplicitamente di Lega o di Salvini.

Il tema è una reprimenda contro i “Keynesiani de’ noantri”, cioè i neo-statalisti giudicati responsabili dello sperpero di denaro pubblico e dei “numerosissimi e gravissimi fallimenti dello Stato”. Il professore la prende alla larga per concludere su quanto sia vantaggioso e desiderabile un sistema economico-sociale centrato sull’applicazione delle ricette neo-liberiste. A un certo punto del ragionamento inserisce una considerazione che sembrerebbe fuori contesto. Scrive Panebianco:” È stato istruttivo leggere che il responsabile economico del Pd, Emanuele Felice (lui, per lo meno, Keynes lo ha letto), considera “di destra” due esponenti del suo stesso partito, il sindaco di Bergamo Giorgio Gori e il presidente della Regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini. La loro colpa è di essere rappresentanti di una parte del Paese di cui non possono non interpretare umori e preoccupazioni: soprattutto, la paura che lo Stato continui a dissipare risorse in assistenzialismo anziché impegnarsi per ridare slancio all’economia di mercato”. È un messaggio in codice destinato all’ala liberista della Lega, di stretta derivazione bossiana, a disfarsi dell’ingombrante “Capitano” per dare vita a una transizione moderata in accordo con i liberisti accampati a sinistra.

La decodifica è in un gustoso articolo di Alessandro De Giuli dal titolo: “Da Panebianco a Mieli e Giorgetti. Gattopardi in arrivo?” pubblicato il 26 settembre sul sito “Liberiamo l’Italia”. Dopo Panebianco Paolo Mieli, che si fa più diretto nel “consigliare” alla Lega un cambio a U di strategia. In un’intervista all’Huffington Post del 25 settembre l’ex direttore del Corsera asserisce che il Covid sia stato il Big bang che ha cambiato la Storia. Anche l’Europa è cambiata e da matrigna si è fatta zattera per i popoli in difficoltà. Italiani compresi. Di tale mutazione, prosegue Mieli, i sovranisti nostrani dovrebbero prendere atto e, a loro volta, cambiare registro. Accertato che per approdare nella stanza dei bottoni le “spallate” non funzionano, i sovranisti a giudizio di Mieli devono fare una rivoluzione importantissima sul terreno della politica internazionale. In particolare la Lega deve chiedere l’iscrizione al Partito popolare europeo per “mettersi nel solco dei partiti moderati e conservatori europei e rinunciare…”. Giacché non vi sono politici buoni per tutte le stagioni, Mieli suggerisce a Giorgia Meloni e a Matteo Salvini un dignitoso cambio di mestiere: “Salvini e Meloni dovrebbero candidarsi rispettivamente a sindaco di Milano e sindaco di Roma. Lo facciano fin da subito dentro un contesto di rivoluzione culturale e poi coglieranno i risultati”.

Un modo elegante per dire ai due di togliere il disturbo consentendo ad altri di raccogliere i frutti dell’albero elettorale che loro hanno scosso. Giorgetti ripete alla lettera le parole di Mieli nell’affermare che sia stato un errore strategico non aver votato la mozione contro il dittatore Lukashenko all’Europarlamento. Ora, non siamo nella testa di Salvini per dirvi cosa farà. Tuttavia, il “Capitano” accetti un consiglio. Prima di compiere mosse avventate rifletta su un dato incontrovertibile: nella storia della Seconda Repubblica vi sono stati casi di partiti che muovendo da posizioni di forte critica o antagonistiche verso lo strapotere in Europa della Germania hanno invertito la rotta ponendosi sotto l’ala protettrice della forza continentale dominante. La conseguenza della loro giravolta è stata la caduta verticale del consenso. In Italia c’è un nocciolo consistente di filo-europeisti felici di vedere consegnato il Paese alla leadership franco-tedesca. Essere colonizzati ammazza l’orgoglio nazionale ma ha i suoi vantaggi. Questa parte di connazionali, culturalmente progressista, non ha bisogno di imbarcarsi in dubbie avventure partitiche giacché ha un solido punto di ancoraggio nel Partito democratico, garante del filoeuropeismo subordinato ai poteri eurocratici.

Se anche la Lega dovesse piegarsi al dominio franco-germanico, come di recente ha fatto il Cinque stelle, sconterebbe un’emorragia di consensi che la farebbe regredire elettoralmente ai numeri della Lega bossiana. E, visto che in politica gli spazi vuoti si occupano, farebbe un grosso favore a Fratelli d’Italia lasciando alla Meloni, già in crescita di suo, una prateria di voti. Ma farebbe un grosso regalo anche all’ala radicale dei Cinque stelle che con Alessandro Di Battista troverebbe nell’euroscetticismo abbandonato da Salvini il leitmotiv per un “grillismo 2.0” da opporre alla componente governista pro-establishment del Movimento, destinata a estinguersi. Si potrebbe dire che, in fondo, sono problemi di Salvini e della Lega: che se la sbrighino tra loro. Ma non è così. Il crollo del primo partito della coalizione della Destra plurale non si tradurrebbe in un totale travaso di voti agli altri partner. Ne beneficerebbero i pentastellati radicali, gli anti-europeisti di Gianluigi Paragone, accreditati da un sondaggio di Piepoli di un 6,9 per cento di consensi nelle intenzioni di voto e crescerebbe l’astensionismo. Ciò provocherebbe un allontanamento della coalizione dalla soglia di autosufficienza parlamentare necessaria per governare il Paese. Si dice che la Lega sia un partito “leninista” perché decide tutto il capo. Se è così, Salvini ci pensi bene prima di combinare il “Papeete 2”. Chi rompe paga. E i cocci stavolta non sarebbero soltanto i suoi.

Aggiornato il 29 settembre 2020 alle ore 11:43