Jihadisti in carcere, non prendiamo sotto gamba la questione

I jihadisti in carcere godono di un regime “privilegiato” e la loro de-radicalizzazione è affidata ad Imam senza controllo, riconducibili alla Fratellanza Musulmana e al Qatar.

C’è un fattore da non sottovalutare che è strumentale alla diffusione del Jihad: il carcere. È un aspetto tralasciato perché si ritiene, sbagliando, che una volta assicurato alle patrie galere, il malandrino non dovrebbe più essere in grado di nuocere e, soprattutto in Europa, ci si illude che sia così anche per i jihadisti, considerati alla stregua dei comuni malandrini.

Ma i jihadisti non sono malandrini come gli altri perché sono fortemente e saldamente ideologizzati (altro che Brigate Rosse!) e lo prova il fatto che pochissimi hanno receduto e solo dopo un sforzo di convincimento a base di promesse e prebende da parte delle istituzioni.

Ed ecco la bella pensata del nostro ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, peraltro in linea con il suo predecessore Andrea Orlando: demandare all’Ucoii (un’Unione islamica permeata dall’Islam politico della Fratellanza musulmana e dai soldi del Qatar) l’assistenza spirituale ai detenuti jihadisti. Sappia il ministro che l’Ucoii persegue l’applicazione della Shari’a né più e né meno come la perseguono i wahhabiti, e per arrivare a ciò, ossia per non spaventare troppo noi laici europei, applica la “takiya” (la dissimulazione). Qualora non ne fosse stato informato, recentemente l’Ucoii per bocca del suo segretario generale ha affermato che Cristianesimo e Giudaismo sono eresie da correggere. Che ne dice di questa chiosa, che è tutto un programma? Che ne dice dei pacchi di dollari che gli giungono dal Qatar e che nessuno si è mai degnato di controllare dove vanno a finire?

Purtroppo, così come le nostre istituzioni democratiche gestite da babbei sono strumentali all’empowerment del peggior Islam (quello dei wahhabiti e della Fratellanza musulmana, quello che mira machiavellicamente a islamizzare l’orbe) altrettanto lo sono i regolamenti carcerari per i jihadisti arrestati: imam dediti alla da’wa e all’incitamento al Jihad, padri di famiglia che hanno massacrato di botte la figlia che non voleva portare lo hijab, jihadisti che hanno compiuto o tentato di compiere un attentato, basta che si proclamino musulmani e vengono reclusi insieme in una situazione di privilegio perché la pressione degli organismi internazionali per i diritti umani ha permesso che i militanti islamici e i jihadisti diventassero dei reclusi di nicchia con tanto di franchigie (sono isolati dagli altri detenuti, sono distribuiti nelle celle dello stesso braccio; possono riunirsi – 5 volte in 24 ore – in orario di preghiera) e adesso, in seno a quelle carceri hanno stabilito una “gerarchia” interna con tanto di imam, di predicatori, e futuri moujahid da immettere nella società una volta scontata la pena. L’applicazione dei diritti umani anche a chi ha commesso delitti disumani deve essere garantita (è una questione di civiltà). Ma da lì a dare l’incarico di redimere i jihadisti ad una organizzazione musulmana che ha finanziato il jihadismo ed è dedita alla takiya, e alla da’wa al fine di promuovere l’estensione dell’Islam all’orbe, ce ne passa.

In Marocco, che sull’argomento ha le idee più chiare delle nostre, chi si occupa della de-radicalizzazione dei giovani jihadisti carcerati sono uomini delle istituzioni del settore educativo e culturale, docenti universitari di sociologia, antropologia e psicologia, nonché imam formati alla scuola statale degli imam e delle “morchidate” incaricati alla bisogna dallo Stato e che rendono conto alle istituzioni, mica organizzazioni private, prezzolate da chi con i jihadisti va a braccetto e non rende conto a nessuno. Ad esempio, gli imam dell’Ucoii cosa dicono ai loro assistiti? In quale lingua parlano con loro? Qualcuno ascolta cosa dicono ai detenuti?

È il controsenso dell’applicazione “dura e pura” dei diritti umani che vengono concessi anche a chi dei diritti umani è risoluto a farne strame, e purtroppo è vero che anche i Paesi più impegnati di altri a contrastare l’islamismo jihadista, come il Marocco, ove è in atto un sistema giudiziario in certi casi giustamente più “sbrigativo” del nostro quando si tratta di cautelare la sicurezza della Nazione, hanno dovuto cedere a quella pressione lasciando che anche nelle loro prigioni i jihadisti arrestati potessero costituire una sorta di comunità interna privilegiata e invidiata dagli altri carcerati.

È indicativo, e ha preoccupato non poco le autorità di sicurezza marocchine, che appena circolata la notizia degli avvenuti attentati jihadisti (di Parigi, Bruxelles, Berlino, Londra), dai reparti riservati ai militanti islamisti, si siano levate grida di giubilo, sbattimento di stoviglie e come di rito è riecheggiato il solito demenziale urlo “Allahu Akbar” che, giocoforza, ha contagiato gli altri detenuti.

Ciò fa sorgere seri dubbi sulla efficacia della de-radicalizzazione di persone che hanno scelto di sgozzarne altre per il solo fatto che credono in un Dio diverso.

E a questo punto mi chiedo: per quale ragione non si hanno remore a condannare i mafiosi al “41 Bis”, calpestando non poco i diritti umani del detenuto mentre ci creiamo tutte le paturnie di questo mondo per applicare pene più restrittive a impenitenti massacratori che urlano Allahu Akbar?

Qualcuno dirà che i mafiosi attentano alla sicurezza dello Stato. Ebbene, ci si renda conto che i jihadisti e chi li supporta minacciano la sicurezza dell’orbe.

Aggiornato il 30 settembre 2020 alle ore 08:48