La convenzione di Faro sui beni culturali, esempio di ricercata ambiguità

martedì 29 settembre 2020


Non si sa cosa abbia spinto nel 2005 una ventina di Paesi nell’ambito del Consiglio d’Europa a riunirsi a Faro (Portogallo) e sottoscrivere un accordo sui beni culturali di cui all’apparenza non vi era proprio bisogno.

Tra questi l’Italia, ministro degli Esteri era Gianfranco Fini, quello dei Beni culturali Rocco Buttiglione, che ora, dopo 15 anni, ha ratificato la Convenzione facendola così entrare in vigore anche nel nostro Paese.

L’ovvietà dei principi recati dal testo già è evidente dall’articolo 1 che rimarca il valore potenziale del patrimonio culturale sottolineando l’importanza della sua conservazione e il suo ruolo nella costruzione di una società pacifica e democratica.

Tra le altre banalità la Convenzione afferma “il diritto al patrimonio culturale” da parte dei cittadini e invita perciò i Paesi sottoscrittori a “promuovere azioni per migliorare l’accesso al patrimonio culturale, in particolare per i giovani e le persone svantaggiate”. Cerca di dare un’ulteriore definizione di patrimonio culturale, inteso non come insieme di “oggetti” ma come “risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione”.

La definizione, che si aggiunge a quelle già esistenti a livello Unesco e a quelle offerte dal Codice dei Beni culturali e del Paesaggio, di fatto ci ricorda che il patrimonio culturale è la nostra eredità e che bisogna cercare di renderlo fruibile a tutti. Tale profonda quanto ovvia riflessione induce a chiederci cosa si nasconde di nuovo tra le righe dell’articolato, che sia sfuggito ai parlamentari di oggi e ai negoziatori del 2005.

L’articolo 4, ad esempio, prevede che le parti firmatarie “riconoscono che l’esercizio del diritto al patrimonio culturale può essere soggetto soltanto a quelle limitazioni che sono necessarie in una società democratica, per la protezione dell’interesse pubblico e degli altrui diritti e libertà”. In che modo la fruizione del patrimonio culturale sarebbe incompatibile con la democrazia, l’interesse pubblico, i diritti altrui e la libertà non si comprende. La sensazione che si tratti di qualcosa di incomprensibile è confermata dalla lettura del successivo articolo 7 della Convenzione, secondo il quale le parti firmatarie si impegnano a stabilire procedimenti di conciliazione per gestire equamente le situazioni dove allo stesso patrimonio culturale siano attribuiti da comunità diverse valori contraddittori.

Altrettanto indefinito l’obiettivo che si prefigge la creazione di un apposito comitato preposto al monitoraggio che sembra pensato proprio per svolgere funzioni di polizia culturale, una sorta di censura si spera non nei confronti di quella parte cospicua della nostra arte costituita dalla raffigurazione del sacro, qualcosa che per molte denominazioni religiose costituisce anatema.

Un patrimonio culturale non deve essere oggetto di negoziazione e di mediazione, ancor meno di meccanismi di conciliazione o di monitoraggio. Esso è, prima di tutto, un fattore identitario che non può in alcun modo subire limitazioni o conciliazioni!

In questo senso è venuto in soccorso un emendamento al disegno di legge di ratifica volto ad affermare che dall’applicazione della Convenzione non potranno derivare limitazioni rispetto ai livelli di tutela, fruizione e valorizzazione del patrimonio culturale garantiti dalla Costituzione e dalla vigente legislazione in materia.

Di fronte a un lessico così anodino è naturale che ai più diffidenti il pensiero sia andato al 2016, quando in occasione della visita del Presidente della Repubblica islamica dell’Iran, si coprirono statue di nudi con schermi di cartone.

È vero che questo è avvenuto pur in assenza dell’attuale Convenzione in nome di un relativismo culturale provinciale. Comunque i diffidenti si chiedono cosa cambierà se qualcuno ci chiederà di oscurare le immagini di Dio oppure se qualcuno sarà urtato dalla raffigurazione della nudità, dalla quale è iniziato il nostro Rinascimento e della quale è impregnata tutta la classicità? Si coprirà tutto? Siamo inoltre sicuri che, ratificando una Convenzione del genere, non si dischiuda la via a ridicoli e gravi esercizi di autocensura preventiva?

L’accordo non pone obblighi agli Stati, è un cosiddetto “accordo quadro”. Una cosa è chiara: il patrimonio culturale non è di destra né di sinistra e tantomeno deve essere soggetto al politically correct. Esso, stratificatosi nei secoli, non dovrà mai essere oggetto di limitazioni, di conciliazioni, di mediazioni da parte di comitati che procedano a cessioni identitarie o a sbianchettamenti della nostra cultura.

Negoziato da un Governo di destra e ratificato da uno di centrosinistra si spera che l’accordo abbia come obiettivo l’affermazione del valore intangibile della cultura e non altro. Una norma di chiarimento però sarebbe più che mai utile.


di Ferdinando Fedi