Salvini a lezione di liberalismo da mastro Pera

Conforta apprendere che, a destra, vi sia qualcuno intenzionato a guardare oltre il proprio naso. Matteo Salvini ancora una volta stupisce. Piuttosto che perdersi a inseguire le dietrologie dei media, che lo danno per spacciato dopo i cattivi risultati dei ballottaggi per le comunali, il leader leghista fa sapere di essere impegnato a studiare pensiero politico presso una delle menti migliori del conservatorismo liberale italiano: l’ex senatore forzista e filosofo Marcello Pera. Dopo la fuga in avanti del vice, Giancarlo Giorgetti, che si è pronunciato a favore di una deviazione centrista che instradi la Lega su un percorso di armonizzazione con i poteri forti europei, era necessario che il leader manifestasse il suo orientamento.

Salvini ha mostrato cautela sull’iniziativa di Giorgetti perché non gli sfugge il fatto che larga parte dell’elettorato conquistato negli ultimi anni abbia fatto affidamento sulla sua promessa di condurre una lotta dura alle politiche dell’Unione europea. Venir meno alla propria scelta strategica per cercare a Bruxelles un’improbabile iscrizione al partito dei “buoni” europeisti avrebbe come inevitabile riflesso la perdita di consenso. Com’è capitato ai Cinque Stelle che, cambiando idea sull’Europa dalla sera alla mattina, di fatto hanno perso il loro elettorato. Il problema non attiene alla natura del populismo o del sovranismo. Ciò che la politica politicante non coglie è la forza persistente del sentimento popolare che connette le cause del proprio disagio economico e sociale alle strategie economiche dell’Unione europea, spesso ostative rispetto agli interessi reali delle imprese e delle famiglie italiane.

La compressione della sovranità nazionale viene vissuta da una ampia platea d’italiani come sottrazione di autonomia e di libertà nell’essere artefice del proprio destino. Tale sentimento negativo è cresciuto a dismisura presso i ceti medi tradizionali che storicamente sono la spina dorsale dell’economia del Paese. L’aggressione costante operata dalla burocrazia europea ai danni del Made in Italy ha fatto il resto. A sinistra si consolano pensando che con il Recovery fund gli italiani torneranno ad amare l’Unione europea. È una pia illusione. In primo luogo perché non è chiaro se, quando e in quale misura arriveranno gli aiuti economici promessi. In secondo luogo perché tutti hanno compreso che non si tratta di regali ma di denari concessi in prestito che dovranno essere restituiti. Che non sarebbe cosa sbagliata. Lo diventa nel momento in cui cittadini e imprese si domandano: se l’Europa ci limita nello sviluppare il nostro potenziale produttivo come potremo ripagare i prestiti?

Matteo Salvini è tra i pochi che hanno focalizzato il nodo del rapporto tra i produttori italiani e la governance comunitaria. Come nel caso, paradigmatico, dei pescatori. Nella logica eurocratica è prevalsa l’idea che alla pesca si debba preferire l’itticoltura. Ciò determina le restrizioni comunitarie che ne affossano il comparto. Peccato che la pesca sia da sempre un fiore all’occhiello dell’Italia. Limitarla fino ad azzerarla significa cancellare qualcosa che è più di un segmento produttivo.

Per i destinatari delle normative capestro diviene inevitabile pensare all’Ue come a una nemica. Salvini ha avuto l’abilità di dire a questo popolo: io sarò la vostra voce. Come potrebbe tornare indietro senza suscitare una reazione di delusione a scapito della sua credibilità di leader? Quello della pesca è un esempio, lo stesso si potrebbe dire dell’agricoltura, del turismo, delle manifatture artigianali. Il blocco economico-sociale dei produttori esiste e non si può fingere che si sia dissolto. Né che cambierà idea sull’Europa per effetto dei quattrini del Recovery fund.

C’è un problema di conciliazione di due opposte realtà: l’appartenenza dell’Italia al contesto dell’Unione europea e il malessere della maggior parte dei suoi ceti produttivi per le policies comunitarie. Come trovare la quadra? La scelta di Salvini di dialogare con Pera è, al riguardo, quanto mai azzeccata. Il filosofo ha fatto parte della squadra di teste pensanti del berlusconismo della prima ora: un gruppo di professori niente male dal punto di vista dell’elaborazione intellettuale. Di certo il meglio che nell’Italia finita sotto le macerie di Tangentopoli la destra liberale e conservatrice potesse mettere in campo. Giulio Tremonti, Antonio Martino, Giuliano Urbani, Lucio Colletti, Saverio Vertone, Giorgio Rebuffa, Piero Melograni, Vittorio Mathieu, Antonio Marzano e Marcello Pera avevano i numeri per attualizzare il progetto di “rivoluzione liberale” strappato al suo primo ideatore, Piero Gobetti, e adattarlo alla piattaforma programmatica del nascente movimento berlusconiano.

Tuttavia, fu l’avventura di un’avanguardia utopista perché il leader carismatico che avrebbe dovuto implementarlo venne fagocitato dagli apparati della conservazione post-democristiana. I “mandarini” dei sacri palazzi romani erano saltati sul carro dell’imprenditore-politico lombardo per impedirgli di dare seguito alle bizzarre idee dei “professori”. Oggi, uno dei superstiti di quella stagione di belle speranze spiega a Salvini che non serve granché avere più seggi in Parlamento se non si ha un’idea di futuro perché un conto è vincere le elezioni un altro governare la complessità della società italiana; che l’Europa c’è e bisogna farci i conti; che si può essere europeisti pur criticandola e pur agendo per cambiarla.

D’altro canto, come Marcello Pera racconta all’Huffington Post, anche il gruppo dei “professori” era euro-timido, quando non euro-sospettoso. Oggi Salvini può tentare quella riforma in radice della società italiana che a Berlusconi fu impedita dagli “amici” e dagli alleati prima ancora che dai nemici politici. La “rivoluzione liberale” potrebbe essere un’opzione praticabile per il futuro del Paese se, cogliendo l’intuizione di Piero Gobetti, la forza propulsiva dell’organizzazione-partito disponesse di una capacità autenticamente liberale “di produrre sempre nuove aristocrazie dirigenti, a patto che nuove classi popolari ravvivino la lotta con la loro disperata volontà di elevazione” (Gobetti).

In parole semplici, Salvini può provare a issare sull’albero maestro del veliero leghista la bandiera del liberalismo, ma deve mantenere la sintonia con l’aspirazione a una dimensione di massa, non autoreferenziale e solipsista, dell’ideale liberale. Per compiere proficuamente tale passaggio di visione non avrà bisogno d’intrupparsi nel contenitore omnibus delle istanze di potere in Europa che è il Partito popolare europeo. Perché è come la mette giù il saggio Marcello Pera: “Si può governare restando sovranisti, o meglio diventando ‘nuovi sovranisti’, coloro che si rifiutano di cedere sovranità a un organismo se non è a sua volta democratico”.

D’altro canto, in Europa un sovranismo vincente c’è ed è quello sostanziale dei Governi che a Bruxelles fanno gli interessi dei propri Paesi senza doverlo scrivere sui frontespizi degli statuti fondativi dei partiti di appartenenza. Se per ricomporre l’album delle grandi famiglie politiche continentali valesse solo il discrimine delle scelte compiute e delle decisioni imposte, non sarebbe Salvini il campione dei sovranisti europei. E neppure Marine Le Pen. Lo scettro andrebbe ad Angela Merkel che dovrebbe condividerlo con Emmanuel Macron, con l’olandese Marke Rutte, con l’austriaco Sebastian Kurz e con quasi tutti gli altri premier dei Paesi dell’Unione.

Al Capitano tocca di fare uno sforzo supplementare nel verso della decisione politica che metta ordine tra forma e sostanza. Se vi riuscisse il timone dell’Italia sarebbe suo.

 

Aggiornato il 12 ottobre 2020 alle ore 08:40