Le due giornate di Napoli

La rivolta a Napoli era nell’aria. Era prevedibile che la rabbia popolare sarebbe scoppiata per reazione alla situazione economica che è diventata insostenibile e dopo lo stillicidio di notizie su un secondo devastante lockdown. Ma ciò che non si poteva prevedere è stato l’accelerante costituito dai toni insensati sulla diffusione del Covid-19 utilizzati dal governatore Vincenzo De Luca per terrorizzare la popolazione. Le cronache riferiscono di due giornate di fuoco: medesimo risultato di violenza, ma differente composizione politico-sociale dei partecipanti alle manifestazioni di protesta. La notte di venerdì sono scesi in piazza migliaia di cittadini, appartenenti a differenti categorie del mondo del lavoro e della produzione, tra cui si sono infiltrati gruppi di facinorosi; il pomeriggio di sabato è stato il turno di frange di disoccupati organizzati, spalleggiati dai Cobas, dai centri sociali e da altre sigle della sinistra antagonista. I primi hanno protestato davanti alla sede della giunta regionale della Campania, dove poi sono esplosi i tafferugli con le forze dell’ordine; i secondi se la sono presa con il palazzo che ospita l’Unione industriali in piazza dei Martiri. Politica e istituzioni si sono precipitati a condannare la violenza. E fin qui, nulla quaestio.

Poi, però, i rappresentanti della maggioranza di Governo hanno focalizzato l’attenzione sugli scontri della notte di venerdì per assegnare alle organizzazioni criminali il patrocinio della rabbia popolare, tacendo colpevolmente sui “compagni che sbagliano” della guerriglia urbana del giorno successivo. Segno che anche nella valutazione del teppismo si possono usare due pesi e due misure. In realtà, si è trattato di un modo vile e semplicistico della maggioranza di sinistra di ripulirsi la coscienza macchiata dalle gravi responsabilità nella cattiva gestione di questa seconda ondata del contagio. Ma anche di un modo sbagliato di leggere gli eventi del fine settimana. Non vi è dubbio che la fase dell’attacco notturno sia stata opera di picchiatori usi alla violenza, ma vederci la camorra nella cabina di regia della manifestazione è una forzatura che non sta in piedi. In strada, venerdì, sono andati principalmente i commercianti e i piccoli imprenditori del comparto della ristorazione, del turismo e del tempo libero, asset portanti dell’economia locale. La decisione di risolvere la crisi sanitaria, chiudendo le attività commerciali senza prima dialogare con le categorie interessate e, soprattutto, senza offrire loro un contestuale sostegno al mancato reddito ha fatto da detonatore a un malessere sociale diffuso, covato sottotraccia già dai mesi del primo lockdown.

Nella fase primaverile della crisi, i tanto osannati interventi governativi per ristorare i danneggiati dalle chiusure forzate sono stati insufficienti e tardivi. Ciononostante, gli operatori dei settori coinvolti hanno tirato dritto nella speranza che, bruciati i tre mesi della curva ascendente del contagio, le cose potessero tornare a posto e, seppure non si recuperassero i guadagni perduti, quanto meno vi sarebbe stata la possibilità di risalire la china. Per questo le piccole e microimprese hanno raschiato il fondo del barile, per autofinanziare gli adeguamenti alle normative di prevenzione del contagio. Hanno ridotto i posti a disposizione della clientela per praticare il distanziamento; hanno acquistato i kit per la sanificazione degli ambienti; hanno predisposto i termoscanner. Insomma, si sono messi in regola per ripartire. Poi, all’improvviso, hanno ascoltato il governatore De Luca che l’ha buttata in tragedia, trascurando di chiarire il perché, avendo avuto quattro mesi abbondanti per preparare le strutture regionali a reggere la preannunciata seconda ondata del virus, il sistema sanitario pubblico stesse rischiando il collasso. Un atteggiamento provocatorio, che ha fatto scattare nei soggetti colpiti dalle misure punitive una reazione che non poteva essere moderata.

Ciò che i media di regime, con la complicità della classe politica di governo, non sanno o fingono di non sapere è che nella storia del sud in generale – e di Napoli in particolare – non è esistita una netta distinzione socio-economica tra la fascia bassa dei ceti produttivi e le classi meno abbienti, quelle che una volta costituivano la spina dorsale del sottoproletario urbano dei quartieri popolari. Si obietterà: tra i facinorosi c’erano personaggi del tifo violento e pregiudicati. E con ciò? Tra operatori commerciali e della micro e piccola impresa e soggetti borderline vi possono essere contiguità famigliari, amicali, di prossimità ambientale che non necessariamente devono essere classificate alla stregua di connivenze malavitose. Inoltre, non è da sottovalutare la presenza, nell’universo imprenditoriale in sofferenza, del cosiddetto “sommerso” che sconta la crisi duramente, al pari dell’economia legale. E venerdì in strada c’era anche quel lato opaco della città. Napoli non è Milano, dove una borghesia culturalmente avanzata, produttiva, aperta all’innovazione, è stata in grado in passato di elaborare risposte politiche, anche di carattere rivoluzionario, alle contraddizioni degli apparati di potere egemoni. Nel sud le rivoluzioni sono sempre finite malissimo. Al contrario, i momenti di rabbia popolare sono stati incanalati verso forme di ribellismo distruttivo, fini a se stesse e incapaci di generare soluzioni politiche alternative allo status quo.

Ciò che l’Italia ha vissuto, la notte di venerdì, s’inquadra nella logica della rivolta spontanea, non della contestazione organizzata. Qui la camorra non c’entra. Potrebbe, invece, entrare in gioco successivamente, ed è ciò che deve preoccupare maggiormente, proponendosi alle istituzioni locali come elemento di mediazione e di tenuta della pace sociale. La camorra non ha alcun interesse a scatenare la guerriglia urbana, visto che grazie agli effetti negativi della pandemia sull’economia sta facendo affari d’oro. L’usura e il rastrellamento sul mercato di imprese decotte a causa del Coronavirus, convertibili in siti di riciclaggio dei proventi illeciti, hanno bisogno del silenzio dei media e della disattenzione dello Stato per poter dispiegare la propria potenza di fuoco finanziaria. Adesso il timore è che la camorra entri in gioco per “fare un favore” al Governo locale, intimidendo i piccoli imprenditori perché tornino a stare in silenzio e a non disturbare il manovratore con atti clamorosi che accendano sulla città i fari dell’opinione pubblica mondiale. Vedremo come evolverà la situazione, a partire dall’autoconvocazione dei manifestanti di questa sera alle 18 in piazza del Plebiscito a Napoli.

Al momento, De Luca ha dovuto cedere rinunciando a imporre la chiusura totale di tutte le attività e, ci si augura, anche a fare il gradasso in diretta social. Tuttavia, se la curva di crescita dei contagi dovesse superare i livelli di guardia, il governatore sarà costretto a tornare alla linea dura. Senza avere le risorse adeguate, per ora solo annunciate dal premier Giuseppe Conte ma non erogate, per compensare le famiglie e le imprese danneggiate, la protesta potrebbe travolgere anche l’azione intimidatrice della camorra. Se lo ficchi bene in testa la sinistra che ci governa: come è già accaduto lo scorso fine settimana, nelle piazze delle giornate di Napoli forse ci troveranno Masaniello, spalleggiato dagli scugnizzi del terzo millennio in motorino e con gli smartphone, a gridare “libertà – libertà!”, ma mai ci vedranno Karl Marx.

Aggiornato il 26 ottobre 2020 alle ore 09:13