Scambio epistolare Conte-Muti

Se scrivessimo che la gestione della crisi pandemica ha fatto perdere ogni orizzonte di senso agli individui che governano questo Paese, la metteremmo sul difficile. Meglio provare a esprimersi raccontando episodi di vita reale. Si prenda il caso della risposta del premier Giuseppe Conte all’accorato appello lanciato dal maestro Riccardo Muti per la riapertura dei teatri e di tutti i luoghi della cultura finiti sotto la scure dell’ultimo Dpcm presidenziale. Se fossimo meneghini domanderemmo al signor Conte “ma te see matt?. Dal momento che non lo siamo, ci limitiamo a considerare la possibilità che il capo del Governo si sia bevuto il cervello.

Ha ragione Alessandro De Angelis che sull’Huffington Post demolisce lo scritto di Conte. La risposta, consegnata alle pagine del Corriere della Sera, è un condensato di ovvietà, farcito con una dose eccessiva di promesse da marinaio e infiocchettata in una prosa affettata, tutta svolazzi di paroloni presi dal “Bignami” di uno svogliato studente liceale. Il premier, nel dirsi addolorato per le difficili scelte compiute, dà merito alla cultura di una indispensabile funzione sociale svolta al servizio dello sviluppo spirituale della comunità. Ma è per come lo dice che si avverte l’odore stantio di una sfacciata presa in giro. “La cultura agisce...aiutando a cogliere il comune destino di finitudine dell’essere umano”.

Qui l’unico destino di finitudine è quello che provano i tanti italiani che non sanno più come combinare il pranzo e la cena. La finitudine è quella dei ristoratori, dei piazzaioli, dei proprietari di palestre, piscine, bar, ritrovi serali, degli attori, degli orchestrali, dei fonici, dei costumisti, delle maestranze del cinema e del teatro a cui sono finiti i soldi per tirare fino alla fine del mese. Ma di che parla questo azzeccagarbugli di provincia che, per un’irripetibile congiuntura astrale, si è trovato a sedere sulla seconda poltrona più importante delle istituzioni repubblicane; a incontrare, celebrità, capi di Stato e di governo che, normalmente, avrebbe visto soltanto in televisione e sulle copertine dei rotocalchi. Uno al quale il santo protettore dei Cinque Stelle, posto che in Paradiso al momento si trovi chi ne rivendichi la qualifica, ha destinato una grazia speciale, più potente di un miracolo. Se la vogliamo mettere sul lessico, la parola del mese, forse dell’anno, dovrebbe essere “angoscia”, che è il sentimento più diffuso tra la gente.

Ciò che sta spaventando gli italiani è la consapevolezza, che mancava nella prima fase della crisi sanitaria, della confusione di idee che guida l’azione del Governo. Se i provvedimenti di chiusura fanno montare la rabbia in chi ne è colpito, la mancanza di una visione per il futuro, che indichi a tutti la strada da percorrere per venire fuori dalla crisi genera depressione sociale. Che non è propriamente la medesima cosa della malinconia esistenziale del lirismo pseudo poetico, a metà strada tra la gozzaniana “A l’amica di nonna Speranzae le “Foglie mortedi Jacques Prevert, del componimento da cinque-meno dell’ispirato inquilino di Palazzo Chigi.

Se fossimo nei panni di Riccardo Muti ci incavoleremmo come bestie per la presa per i fondelli. Lui, il “maestro”, ha scritto un appello sobrio, asciutto, essenziale, preciso, proprio come la sua musica; l’altro, l’azzeccagarbugli, gli ha risposto con paroloni vuoti e, vista la drammaticità della richiesta, financo provocatori. Ma si possono affermare cose del tipo: “Il criterio che ci ha guidato non è stato quello di colpire indiscriminatamente un settore ritenuto “superfluo” rispetto ad altri. Siamo invece intervenuti su tutti quei settori di attività — ristorazione serale e attività collegate, fitness, spettacolo — che offrono occasioni di socialità, elevate o meno che siano. Settori di attività che contribuiscono — direttamente e indirettamente — a generare assembramenti e aggregazioni di persone, e che generano, soprattutto nelle ore serali, afflussi sui mezzi pubblici e moltiplicano le occasioni di contagio”?

Già che era in vena di luoghi comuni e leggende metropolitane, il Conte “poeta” avrebbe potuto aggiungere nella risposta a Muti che non ci sono più le mezze stagioni e che la nebbia a Milano si taglia con il coltello. Banalità in più, banalità in meno, non ci si fa più caso. L’avete mai vista la luna a Marechiaro? Noi sì, ma le folle che si ammassano sui mezzi pubblici di sera per andare al ristorante o al cinema ce le siamo perse. Da giovani abbiamo amato le liriche di un poeta-soldato. Ma un poeta-premier nella Seconda Repubblica ci mancava, a meno di non attribuire alla categoria poetica i testi delle canzoni d’amore del duo Silvio Berlusconi-Mariano Apicella. L’esperienza politica è quella espressione dell’attività umana che mira, attraverso la razionalità argomentativa e il confronto dialogico, a finalizzare la costruzione umana, tenendola al riparo dagli opposti rischi derivanti dal pragmatismo, che è riduzione del divenire della storia a gestione quotidiana dell’esistente, e dall’utopia, che è scollamento della visione del mondo dalla realtà. Se si prende per buona tale definizione dell’esperienza politica, Conte vi sembra un politico? E se non lo è, cos’è? Un premier per caso? Un personaggio in cerca di autore? Stiamo come stiamo a causa del virus, come su una barca trascinata nell’occhio del ciclone. E chi abbiamo al timone? Un tipo che gioca a fare il filosofo dallo spunto lirico, con ciò prendendo a sfottere i suoi interlocutori.

Il premier è sprovvisto del pur necessario senso della misura. Non conosce l’etica del limite. Eppure dovrebbe, proprio perché è un capo di governo che ha nelle mani i destini di una nazione. Si preoccupa della finitudine del destino dell’uomo? Qui l’unica finitudine che ci sta a cuore è la data di sfratto del Conte bis: il Governo dei pessimi che si è giocato ai dadi, in una bisca clandestina, il futuro del Paese. Che è poi il nostro. Adesso un “vaffa” calzerebbe a pennello.

Aggiornato il 30 ottobre 2020 alle ore 09:52