Le carceri nuovi corridoi per la radicalizzazione jihadista

mercoledì 18 novembre 2020


Le vie della radicalizzazione sono diverse. E tra i percorsi in cui si insinua, le prigioni sono tra i più fertili. Veri e propri centri di selezione e reclutamento, nelle carceri i radicalizzatori si sostituiscono a parenti, amici o conoscenti, militanti che frequentano alcune moschee o centri culturali, ma anche a internet e social media. Le criticità di un ambiente simile rendono quella carceraria una circostanza particolarmente favorevole alla trasmissione dell’ideologia e della forma mentis jihadiste, mettendo a dura prova l’efficacia delle procedure di sicurezza proprie degli istituti penitenziari. Le fasi del processo di radicalizzazione sono molteplici e ben precise, e trovano la strada spianata nelle carceri, quelle italiane, che presentano non poche criticità.

Per contrastare il terrorismo di matrice islamista è indispensabile comprenderne l’origine e lo sviluppo. Alla trasformazione psicologica ed emotiva, attraverso la quale un individuo fa proprie idee e finalità politico-religiose sempre più radicali, con la convinzione che il raggiungimento di tali finalità giustifichi metodi estremi, segue un cambiamento comportamentale. Un’evoluzione che può avvenire anche in sole 3 o 4 settimane. I soggetti che intraprendono questo processo non vengono scelti casualmente, ma sono selezionati accuratamente tra coloro che dimostrano di avere quei fattori personali e contestuali che li rendono suscettibili alla radicalizzazione. Persone più vulnerabili perché hanno vissuto un’una esperienza vicino al salafismo, la fratellanza. Uomini e donne che vivono ai margini della società, insomma già nel loro Paese di provenienza. Chi è cresciuto con queste difficoltà vede nella religione un pretesto per canalizzare una rivolta intima contro il sistema e la società, percepiti in maniera ostile, e trova nel fondamentalismo islamico un mezzo per realizzare l’azione di rivalsa attraverso cui avverare il proprio desiderio di contrapposizione allo status quo.

È così che l’Islamismo è divenuto impropriamente un simbolo di rivolta antisociale. In quest’ottica la prigione è una vera e propria fabbrica di terroristi. Un fenomeno che è diffuso sì in Italia, ma anche in tutti i paesi dell’Europa occidentale. Detenuti estremisti che svolgono attività di proselitismo per spingere altri detenuti a radicalizzarsi, rappresentano un male comune ai sistemi penitenziari di Francia, Belgio, Gran Bretagna, Germania, Spagna e Italia. Le carceri europee, dove circolano testi che incitano all’odio e alla violenza, sono i luoghi in cui frustrazioni e risentimenti, uniti al sovraffollamento, alle condizioni detentive spesso inadatte, alla più o meno fondata percezione di essere discriminati, determinano le condizioni personali e contestuali adatte all’innesco di processi di radicalizzazione. È così che possono formarsi agevolmente reti di jihadisti in contatto con affiliati all’esterno per pianificare attacchi terroristici. Un modo d’agire subdolo e al contempo allarmante, che in Italia è stato e continua ad essere sottovalutato.


di Souad Sbai