B. & B.: i due protagonisti della “Economy of Francesco”

venerdì 4 dicembre 2020


La Dottrina sociale della Chiesa è aggredita oggi da torsioni concettuali che ne minano i presupposti, stravolgendone lo spirito sulla base di una supposta aderenza alla lettera. Ma se, come afferma San Paolo, la lettera uccide e lo spirito vivifica, è più a quest’ultimo che alla prima che dobbiamo badare, senza ovviamente commettere l’errore di distorcerla. Casi minori di questa aggressione alla Dottrina sociale della Chiesa si possono vedere ogni giorno sotto forma di dichiarazioni, messaggi o articoli, di svariata impostazione, con diverse intenzioni e con diversi centri dell’attenzione, e tuttavia sempre con il medesimo risultato di disorientamento dei cristiani; ma spesso assistiamo anche a tentativi superiori, provenienti da vertici ecclesiastici o teologici. Se però de minimis praetor non curat, dei maggiori e tanto più dei massimi bisogna assolutamente occuparsi (e preoccuparsi), perché in questo caso non è in gioco un’interpretazione bensì una rivoluzione.

Quando Papa Bergoglio bolla il sistema capitalistico come iniquo e gli oppone una concezione comunistica, e quando utilizza la dottrina sociale cristiana per questo scopo teologico-politico, sta compiendo un’azione legittima dal punto di vista della libertà di pensiero oltre che, ovviamente, della sua posizione teologico-istituzionale, ma fallace da quello teorico. Infatti, la Dottrina sociale della Chiesa non lascia dubbi su questo vagheggiato connubio: il socialcomunismo è – e quindi dovrebbe restare – antitetico alla concezione cristiana del mondo, della vita e della società. E dunque, pur orientandosi sul registro di un’economia che ponga in primo piano la persona – o forse proprio perciò – la Dottrina sociale della Chiesa ha sempre appoggiato il sistema produttivo capitalistico, sia perché esso è nato e soprattutto sviluppatosi in sintonia e non in antitesi alla visione cristiana della società, sia perché, in particolare, esso è l’unico nel quale può funzionare il principio fondamentale della sussidiarietà. Chi mette in discussione questo assetto criticando i princìpi liberisti dell’economia capitalistica, contribuisce – non importa per quale scopo e nemmeno se solo involontariamente – a quell’aggressione multipolare e pluristratificata. Dinanzi a queste aporie, che investono lo spirito più ancora che la lettera, si delinea una soluzione, non al ribasso ma al rialzo, perché innalza il problema pragmatico-sociale al livello culturale e spirituale. Distinguendo fra liberismo e liberalismo, bisogna adottare senza indugio il primo e adattare il secondo alle istanze del conservatorismo del ventunesimo secolo, generando quel nuovo piano che da parecchio tempo sta funzionando perfettamente in molti Paesi europei ed occidentali: liberalconservatorismo, vale a dire liberismo sul terreno economico e conservatorismo su quello dei valori.

Il liberismo è la garanzia materiale del conservatorismo, il quale è oggi la garanzia spirituale del liberismo: quest’ultimo si realizza virtuosamente nella sfera di conservazione dei valori tradizionali, e il conservatorismo è possibile solo in un contesto di piena libertà di mercato. Senza liberismo economico non c’è infatti nemmeno conservatorismo valoriale, perché l’alternativa al liberismo è un sistema economico ideologizzato di stampo totalitario che, in forme marxiste-leniniste classiche o in forme legate ai nuovi movimenti latinoamericani, allontana la Chiesa dal suo alveo tradizionale costituito dall’Occidente, favorendone una che promuove quella sorta di nuovo politeismo che, absit iniuria verbis, viene promosso oggi dai vertici vaticani. Un terrificante esempio di questa aggressione dottrinale è il recente convegno The Economy of Francesco, svoltosi ad Assisi su impulso vaticano, centrato sulla figura di San Francesco e focalizzato sull’economia nel senso ampio del termine. A questo incontro il Francesco Papa non era presente fisicamente, nemmeno a distanza, ma c’era, in collegamento video, una sua controfigura, colui il quale, nel vasto e qualificato parco di relatori, era implicitamente – cioè contenutisticamente – deputato ad esprimere la posizione del pontefice, del quale è da decenni interlocutore: Leonardo Boff, uno dei principali esponenti della teologia della liberazione, membro autorevole di una corrente politico-religiosa di estrema sinistra e di estrema pericolosità non solo per la società occidentale ma per la Chiesa stessa: Vangelo e Capitale, teologia e rivoluzione, crocefisso e mitra, come abbiamo visto fin dagli anni Sessanta in tutta l’America Latina. Questa presenza al convegno vaticano è stata criticata, con indiscutibili ragioni, da Stefano Fontana in un articolo pubblicato su La Nuova Bussola Quotidiana, sostenendo che la radicalizzazione ideologica di Boff avrebbe dovuto suggerire agli organizzatori maggiore prudenza, perché se è giusto che la Chiesa parli a tutti, non necessariamente essa deve – nelle proprie sedi – far parlare tutti. Ma Fontana è anche consapevole del fatto che vi sia oggi una tendenza nella Chiesa che coincide con le posizioni di Boff, e ciò spiega la sua presenza. Infatti, la vicinanza di Bergoglio a Boff risale addietro nel tempo, si fonda su quella visione teologico-politica che li ha sempre accomunati e che oggi si esprime non più solo attraverso voci marginali come sostanzialmente erano un tempo quelle dei teologi latinoamericani, bensì per mezzo della potenza amplificatrice del Vaticano, guidato appunto da un antico esponente, sia pure con toni personali e originali, di quell’orientamento teologico che in Boff si chiama appunto teologia della liberazione e in Bergoglio (tramite il trait d’union rappresentato da Juan Carlos Scannone) teologia del popolo. Del resto, Boff aveva implicitamente anticipato l’accostamento con il Santo di Assisi e il fulcro stesso del convegno, con il libro Francesco d’Assisi, Francesco di Roma, nel quale sosteneva che, a proposito di Bergoglio, “l’importante è identificarsi non con la teologia della liberazione, ma con la liberazione degli oppressi, dei poveri e dei senza giustizia. E “Papa Francesco” fa questo con indubitabile chiarezza” (Leonardo Boff, “Francesco d’Assisi, Francesco di Roma”, Bologna, 2015, pagina 85).

Mostrandosi interprete acuto del pensiero bergogliano, Boff dichiarava che con l’attuale papa “il Terzo mondo è entrato in Vaticano”, portandovi le istanze più radicali, incluso quelle di Boff, che da Papa Giovanni Paolo II era invece stato ammonito e allontanato. Con l’attuale pontefice entrano però non solo, come è giusto che sia, i drammatici e reali problemi del Terzo mondo, ma anche le fanatiche e surreali teorie con cui la teologia della liberazione e i movimenti rivoluzionari li affrontano. Infatti, spiega Boff, proprio perché Bergoglio proviene da un’area del pianeta in cui “la Chiesa ha capito che, oltre alla sua missione specificatamente religiosa, non può sottrarsi a una missione sociale urgente: stare a fianco dei deboli e degli oppressi, impegnandosi per la loro liberazione”, le opzioni a favore di una “evangelizzazione liberatrice” e di una Chiesa dei poveri gli appaiono come “realtà evidenti” che, invece, sarebbero a suo dire inaccessibili per la “vecchia cristianità europea, piena di tradizioni, teologie, cattedrali e di un sentimento del mondo impregnato del modo greco-romano-germanico di articolare il messaggio cristiano” (ivi, p. 139). Il momento simbolico che ha suggellato questa introduzione e il conseguente cambio di paradigma sarebbe rappresentato, secondo Boff, dall’udienza privata concessa a Gustavo Gutiérrez nel settembre 2013, perché “con questo gesto il papa ha manifestato la direzione in cui procede la sua ispirazione pastorale: quella degli oppressi da liberare”.

La dislocazione in Europa di teoria e metodi di quel movimento teologico, nella rinnovata unione fra terzomondismo e socialismo consacrata dalla benedizione di Bergoglio, comporta l’apertura di una nuova frontiera spirituale, culturale, ideale e dottrinale, e al tempo stesso di un inedito – raggelante e devastante – fronte di scontro fra cattolici, divisi fra coloro che accolgono le tesi “liberazionistiche”, intrise di ribellismo, anti-occidentalismo, socialismo e perfino di marxismo, e coloro che invece credono nell’orientamento tradizionale della fede e della Chiesa, la quale guarda e parla al mondo intero da una prospettiva originaria, unica e incontrovertibile, centrata storicamente nella civiltà occidentale e nella verità della Rivelazione. Con Bergoglio questa divisione diventa un abisso, destinato ad allargarsi in misura direttamente proporzionale all’aumento della radicalizzazione terzomondista da parte vaticana. La teologia latinoamericana, che certamente ha ricevuto impulsi fondamentali da teologi progressisti europei come Jurgen Moltmann, Johann Baptist Metz e Karl Rahner, è lo strumento e insieme la causa di questa divaricazione, che corre parallela alla congiunzione fra cristianesimo e ideologia comunista. In riferimento all’analisi marxista della società, il cardinale Gerhard Ludwig Müller, nel libro scritto con Gustavo Gutiérrez, ha sostenuto che “non esiste una teoria capace di spiegare meglio i fenomeni e fatti relativi allo sfruttamento, alla povertà e all’oppressione” (Gustavo Gutiérrez e Gerard Ludwig Müller, “Dalla parte dei poveri. Teologia della liberazione, teologia della Chiesa”, Padova 2013). Dichiarata l’insuperabilità del marxismo nella spiegazione delle articolazioni sociali, resta solo da collegarlo all’ermeneutica teologica ed ecco compiuta l’apologia del catto-comunismo, sotto l’egida della teologia della liberazione e con la benedizione papale. Come chiarisce Julio Loredo nell’eccellente libro Teologia della liberazione, “i teologi della liberazione assumono l’analisi marxista e ne applicano i postulati alle realtà sociali, economiche, politiche, culturali, storiche; salvo poi spacciare le loro conclusioni come “teologia”” (Julio Loredo, “Teologia della liberazione. Un salvagente di piombo per i poveri”, Siena 2014).

Con Bergoglio la teologia della liberazione è entrata dunque in Europa dall’ingresso principale, senza alcuno sforzo istituzionale e organizzativo, con il favore dei grandi media e l’aiuto collegiale di tutti quei cardinali, vescovi e sacerdoti (la grande maggioranza degli ecclesiastici) che hanno potuto predicare senza più alcuna remora la dottrina del catto-comunismo. Nella sua conferenza all’incontro assisiano, Boff inizia con un’affermazione che esprime – nella sua essenza – la tesi centrale intorno alla quale ruota il convegno e, soprattutto, l’attuale orientamento economico-sociale del Vaticano: “il Papa rifiuta risolutamente l’ordine economico attuale”, respingendo il capitalismo e il paradigma socio-culturale che lo regge. Boff trova la prova di ciò nell’enciclica Fratelli tutti, dove si chiarisce (o per meglio dire: si ammonisce) che “se qualcuno pensa che si tratti solo di far funzionare meglio quello che già facevamo, o che l’unico messaggio sia che dobbiamo migliorare i sistemi e le regole già esistenti, sta negando la realtà” (Papa Francesco, Enciclica Fratelli tutti). Bergoglio, prosegue Boff, “attacca esplicitamente i quattro pilastri che reggono l’ordine economico attuale: il mercato (in termini di economia), il neoliberalismo (in termini di politica), l’individualismo (in termini di cultura) e la devastazione della natura (in termini di ecologia)”, e quindi non propone correttivi al sistema, non lo vuole modificare dall’interno, ma vuole cambiarlo il più radicalmente possibile. Visione economico-sociale tipica dell’ideologia comunista, nella sua modulazione sessantottina: il sistema si abbatte, non si cambia. Questa la versione di Boff, che però non si distacca quasi per nulla dall’originale bergogliano. Ora, affinché si possano trovare i mezzi per conseguire gli obiettivi di una teoria, bisogna che questi ultimi siano ben definiti, nella forma e nel tempo, e affinché essi trovino un’adeguata definizione è necessario che la teoria abbia un punto di appoggio solido e immodificabile. Nella teoria economica francescana questo punto è rappresentato dalla dichiarazione di Boff: rigettiamo il sistema capitalistico. L’alternativa sarebbe un’economia socialista non tanto nel senso dell’efficientismo statalista sovietico dei piani quinquennali, quanto piuttosto nel senso di un socialismo utopistico ottocentesco, non meno statalista ma strutturalmente sgangherato e ideologicamente modificato con l’inserimento di istanze indigeniste che agglutinano cristianesimo e sciamanesimo, tribalismo e marxismo. Oggi infatti, dopo il Sinodo Amazzonico e dopo l’enciclica Fratelli tutti, la lungimirante affermazione (risalente al 1977) di Plinio Corrêa de Oliveira, secondo cui “il tribalismo indigeno è l’ideale comunista-missionario per il Brasile del XXI secolo”, può essere estesa a tutto il raggio d’azione del proselitismo bergogliano, che ormai mira a una sorta di indigenismo mondiale che sostituisca, come vogliono i teologi della liberazione, “l’uomo nord-atlantico”, l’uomo occidentale.

Colto nella sua essenza, il nodo intorno al quale ruota tutta la nuova costruzione economica vaticana consiste nella concezione della proprietà privata, che nell’enciclica Fratelli tutti viene severamente colpita, bersaglio di una critica complessiva che mira a decostruirne il concetto e abolirne la prassi. Se infatti la povertà è il tema privilegiato della riflessione di Bergoglio, la proprietà ne è il principale obiettivo critico. La proprietà è un concetto originario, che deriva dall’esperienza storica fondamentale di quell’uomo occidentale che i teologi della rivoluzione vorrebbero sostituire e che è, insieme con il concetto di libertà, alla base dell’idea cristiana della dignità della persona. E, sia pure indirettamente, è contro questa coscienza storica che Bergoglio si dirige quando esorta a considerare (in questo caso si rivolge ai giudici che si occupano di cause sociali) l’idea (in sé assolutamente balzana ma in questo contesto altamente suggestiva) di una giustizia non tanto distributiva quanto restitutiva: “Quando ripensate all'idea di giustizia sociale, fatelo essendo solidali e giusti (…). Solidali nella lotta contro le cause strutturali di povertà, disuguaglianza, mancanza di lavoro, terra e alloggio (…). Giusti sapendo che, quando decidiamo nell’ambito del diritto, diamo ai poveri le cose essenziali, non diamo loro le nostre cose, né quelle di terzi, ma restituiamo loro ciò che è loro. Abbiamo perso molte volte questa idea di restituire ciò che gli appartiene” (Papa Francesco, Messaggio in occasione dell’Incontro internazionale dei giudici membri dei Comitati per i diritti sociali di Africa e America, 30 novembre 2020).

Uno dei pericoli insiti in questa visione consiste nella possibilità che alle parole seguano i fatti e che, dunque, qualcuno realizzi – inevitabilmente con la violenza – questa forma di espropriazione come risarcimento di presunte precedenti sottrazioni. Se infatti dare significa restituire, allora in qualche momento qualcuno ha tolto ciò che viene ora restituito, e quindi ciò che si possiede sarebbe stato precedentemente estorto, mai guadagnato, ed è perciò illegittimo o quanto meno improprio. Follia. Da questa tesi si arriva ad un passo dottrinale radicale e forzato che conduce a una prassi sostanzialmente espropriativa: “Costruiamo la nuova giustizia sociale partendo dal presupposto che la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto il diritto alla proprietà privata come assoluto e intoccabile”. L’espropriazione come ri-appropriazione dei beni: un paradosso dai toni sofistico-decostruzionisti che contiene un potenziale esplosivo di portata colossale, sia sul piano teorico sia su quello pratico. La proprietà privata, in tutte le sue declinazioni, viene qui disintegrata.

Così si incita, palesemente, a impossessarsi di beni altrui (terre e abitazioni, anzi le tre “t”: tierra e techo, il trabajo si troverà poi, chissà come) semplicemente come atto di restituzione di un supposto maltolto storico, sulla base di una premessa dottrinale che fa del Cristianesimo una sorta di comunismo primitivo, nel quale “il diritto di proprietà è un diritto naturale secondario derivato dal diritto che tutti hanno, nato dalla destinazione universale dei beni creati”. Una dottrina sociale della Chiesa (versione bergogliana) come teoria della restituzione dei beni non si differenzia infatti dalla teoria marxiana della proprietà come furto. E di conseguenza «non c'è giustizia sociale che possa essere basata sull'ineguaglianza, la quale implica la concentrazione della ricchezza». In quanto sistema della ricchezza concentrata, è il capitalismo qui ad essere posto sul banco degli imputati, e in quanto estorsore di quella ricchezza è l’uomo occidentale che va corretto. In questa chiave, l’”economia di Francesco” è una pesante rivoluzione antropologica, perché si presenta come un progetto di trasformazione radicale non solo dei rapporti produttivi ma anche di quelli sociali e culturali. Si delinea così un mondo in cui «l’organizzazione sociale si basa sul contribuire, condividere e distribuire, non sul possedere, escludere e accumulare» (Papa Francesco, Messaggio ai partecipanti al Seminario virtuale “America Latina: Chiesa, Papa Francesco e gli scenari della pandemia”, 19 novembre 2020).

Contrapponendo condivisione a possesso, Bergoglio apre una spaccatura artificiale (e strumentale) nella coscienza dell’uomo occidentale, nella quale invece possedere e condividere possono coesistere, purché non si intacchi la nozione di proprietà (e nemmeno quella di libertà). Usando poi il concetto di accumulazione, egli svela tutta la sua implicita prossimità al marxismo. Questo schema dicotomico contrappone dunque al sistema capitalistico l’economia presuntamente salvifica dei movimenti sociali e di ciò che definirei lavoro di sussistenza. E lo schema si estende a tutti gli ambiti della vita sociale: per risolvere i “malesseri sociali: la mancanza di un tetto, la mancanza di terra e la mancanza di lavoro, le tre famose T” (ivi), Bergoglio pensa infatti a «un nuovo modello culturale” (Papa Francesco, Messaggio in occasione dell’incontro organizzato dalla Congregazione per l’educazione cattolica: “Global compact on Education. Together to look beyond”, 15 ottobre 2020), a una “educazione integrale” e a una “ecologia integrale”, che a loro volta rinviano, nella loro struttura teorica e nella loro applicazione pratica, alla nuova “Economy of Francesco”. Infatti, “l’economia, nel suo senso umanistico di “legge della casa del mondo”, è un campo privilegiato per il suo stretto legame con le situazioni reali e concrete. Essa può diventare espressione di “cura”, che non esclude ma include, non mortifica ma vivifica, non sacrifica la dignità dell’uomo agli idoli della finanza, non genera violenza e disuguaglianza, non usa il denaro per dominare ma per servire”, poiché “l’autentico profitto, infatti, consiste in una ricchezza a cui tutti possano accedere” (Papa Francesco, Messaggio al Forum di “European House” – Ambrosetti, 4-5 settembre 2020). Questa accessibilità implica, nella sua essenza, la messa in comune dei beni: “Ciò che possiedo veramente è ciò che so donare” (Papa Francesco, Udienza generale, 7 novembre 2018).

In sé, la premessa da cui qui si parte non sarebbe del tutto sbagliata: non è sbagliato reclamare una riflessione per “rallentare un ritmo disumano di consumo e di produzione, per imparare a comprendere e a contemplare la natura, a riconnetterci con il nostro ambiente reale; puntare a una riconversione ecologica della nostra economia, senza cedere all’accelerazione del tempo, dei processi umani e tecnologici, ma tornando a relazioni vissute e non consumate”, ma è profondamente e distruttivamente errata la conseguenza teorica e pratica. Catastrofica è l’esortazione: “Al centro dell’economia di comunione ci sia la comunione dei vostri utili. L’economia di comunione è anche comunione dei profitti”, mentre “il capitalismo fa della ricerca del profitto l’unico suo scopo”, diventando “una struttura idolatrica” (Papa Francesco, Discorso ai partecipanti all’incontro “Economia di comunione”, promosso dal Movimento dei Focolari, 4 febbraio 2017). Così si colpisce al cuore non solo il meccanismo produttivo, ma anche l’intero schema di pensiero occidentale, tentando assurdamente di mostrare come la Chiesa debba opporsi ad esso, senza però accorgersi che la religione cristiana (e quindi la Chiesa) è parte integrante di quello schema, parte fondante – e risultante – dell’Occidente in tutti i suoi aspetti.

L’economia di Francesco è ora esplicita, “mettere i profitti in comune”, perché “il modo migliore e più concreto per non fare del denaro un idolo è condividerlo, condividerlo con altri, soprattutto con i poveri, vincendo la tentazione idolatrica con la comunione” (ivi). Che nel sistema capitalistico il denaro sia un idolo (cioè un fine anziché un mezzo per vivere) è una interpretazione fallace prodotta dall’ideologia comunistica, alla quale è connessa l’affermazione, non meno fallace, generata dalla medesima ideologia e da un cristianesimo primitivistico-pauperistico, che il denaro sia sterco del demonio. Ora, poiché “il capitalismo continua a produrre gli scarti che poi vorrebbe curare”, l’economia di comunione vuole invece costruire un sistema senza scarti, ma al tal fine “bisogna cambiare le regole del gioco del sistema economico-sociale (…), non farsi bloccare dalla meritocrazia invocata da tanti, che in nome del merito negano la misericordia” (ivi). Cambiare le regole per cambiare anche il gioco: in questa prospettiva, profitto e accumulazione sono da bandire in quanto strumenti di sfruttamento, produttori di scarti e idoli della crescita, a cui vanno contrapposte la condivisione e la decrescita: “Tutte le volte che le persone, i popoli e persino la Chiesa hanno pensato di salvare il mondo crescendo nei numeri, hanno prodotto strutture di potere, dimenticando i poveri” (ivi).

E arriviamo così al paradosso, secondo cui la povertà non si fronteggia dunque con la crescita economica, ma con il progressivo depauperamento: “Per avere vita in abbondanza occorre imparare a donare: non solo i profitti delle imprese, ma voi stessi. Il primo dono dell’imprenditore è la propria persona: il vostro denaro, seppure importante, è troppo poco. Il denaro non salva se non è accompagnato dal dono della persona” (ivi). Ma, culmine del paradosso, non basta donare qualcosa, bisogna donare tutto, e per farlo bisogna uscire dall’ingranaggio capitalistico: “Il capitalismo conosce la filantropia, non la comunione. È semplice donare una parte dei profitti, senza abbracciare e toccare le persone che ricevono quelle “briciole” (…). Se non si dona tutto non si dona mai abbastanza” (ivi). Così il cambio di paradigma sarebbe compiuto, affinché “il “no” ad un’economia che uccide diventi un “sì” ad una economia che fa vivere, perché condivide, include i poveri, usa i profitti per creare comunione” (ivi). In questo deliquio economico-sociale, Bergoglio si dichiara vicino al popolo, ma per lui, nella linea ideologica della teologia della liberazione, popolo non equivale all’insieme delle persone e dei gruppi che compongono un’etnia e formano una nazione, bensì consiste in quella parte di popolazione che in date circostanze e per svariate ragioni appartiene agli strati più indigenti. Egli taglia il concetto di popolo in classi (schema arcinoto), finendo con il sussumerlo sotto a una soltanto di esse: i poveri (riformulazione del concetto marxista di classe proletaria). In questo modo, Bergoglio non riesce a capire e a conoscere il popolo in quanto tale, non certamente quello italiano (e, possiamo dire, europeo); non ne conosce il recondito sentire, i bisogni autentici, la visione storica e l’intrinseca polifonica unitarietà che lo unisce, tutto, nella sua tradizione e nella sua esistenza storica. Come può il contadino italiano accettare anche soltanto l’ipotesi di qualcosa come la comunizzazione della proprietà privata? Come può Bergoglio ragionevolmente pensare che quello che Sandro Fontana ha elogiativamente definito “l’istinto proprietario” del contadino, il quale con i consimili è sempre solidale, possa conciliarsi con la forzatura criptomarxista e palesemente terzomondista di una dottrina economica socialista amalgamata con un Cristianesimo comunisteggiante? Quando quell’istinto proprietario originario e identitario si vede minacciato da una dottrina ecclesiastica che lo vuole reprimere, reagisce, legittimamente, e lo scontro è inevitabile. Il contadino, proprietario istintivo e ostinato, ma anche razionale, non sarebbe dunque “popolo”? Allora questa posizione sarebbe analoga a quella sovietica nei confronti dei kulaki: la differenza è che i sovietici usarono nei confronti dei kulaki un trattamento di sterminio che ovviamente Bergoglio non ha mai nemmeno per un istante pensato. Ma pur con le più buone intenzioni, quella strada è impercorribile, non solo perché porta con sé sciagure economiche e sociali, ma anche perché conduce al male, direttamente e inevitabilmente. E per di più è una strada che il popolo in generale rifiuta.

Quindi Bergoglio si trova di fronte a un problema: come fare per inculcare nel popolo princìpi economico-sociali che esso respinge? Se insiste troppo nell’azione di persuasione forzata, rischia di spezzare quel filo di collegamento che già è diventato ormai molto logoro; se allenta e ammorbidisce troppo, rischia di non raggiungere l’obiettivo. Quindi deve imboccare una terza via: procedere a una sorta di istituzionalizzazione di questa anomala dottrina economica, promulgando un documento ufficiale che la esponga in maniera e in forma definitiva, facendola diventare – ma con un’imposizione d’autorità – la nuova dottrina sociale della Chiesa. A 130 anni dalla promulgazione della Rerum Novarum di Leone XIII, dell’enciclica cioè che dà fondazione e sistematicità alla Dottrina sociale, l’ipotesi che l’attuale pontefice ne promulghi un’altra che riveda quella Dottrina e che di fatto la sostituisca, non è per nulla infondata. Anzi, si annuncia come una logica conseguenza della visione economico-sociale di Bergoglio e una pragmatica soluzione per debellare le resistenze che la nuova dottrina, pienamente socialista e non più sociale, incontra tra i cattolici di ogni parte del mondo. Non c’è dunque speranza per i moltissimi cristiani che respingono questa radicalizzazione comunistica della Chiesa? Un’opzione c’è, e andrebbe colta con determinazione e coraggio, a tutela non solo della Dottrina sociale della Chiesa ma anche del destino dei cristiani nella società. Con tutto il rispetto dovuto alla figura del papa, ma con tutta la legittimità di criticare – con onestà intellettuale – le tesi economico-sociali di Bergoglio, va riaffermato il valore centrale del sistema capitalistico, la sua molteplice e pluralistica struttura di pensiero e di prassi, nella quale i princìpi del liberalismo – ovviamente intesi non nel senso del liberalismo che ammirava la rivoluzione francese, né in quello del libertinismo anarco-comunista sessantottino, né in quello del progressismo liberal della nostra epoca, ma sotto la forma del liberismo economico e della libertà e dignità della persona, della libertà di impresa e di espressione, di salvaguardia dell’identità e della tradizione della civiltà occidentale –, si coniugano con la difesa dei dieci Comandamenti, con l’autonomia della religione, nella distinzione dei poteri ma nell’unione degli spiriti ovvero delle rispettive sfere spirituali entro l’orizzonte della tradizione ebraico-cristiana. Al di fuori di questo quadro liberale anti-progressista e liberista, conservatore e tradizionalista, c’è soltanto l’inferno della società comunista (nel modello latinoamericano o in quello cinese, a seconda dei casi o delle preferenze) o quanto meno il caos della società liquidata e disorientata in cui rischiamo di trovarci nel percorso verso la prima.

Dottrina sociale della Chiesa e liberalismo devono dunque trovare una sintonia sul piano spirituale ed economico esattamente come, sul piano politico, l’hanno trovata il conservatorismo e il liberalismo con il paradigma oggi sperimentato e consolidato del liberalconservatorismo, nel quale si sono ritrovati esponenti di primissimo piano della Chiesa come, per fare solo alcuni nomi eminenti, i cardinali Camillo Ruini, Raymond Leo Burke, Giacomo Biffi, Carlo Caffarra e, prima di loro, Stefan Wyszyński, campione di un anticomunismo razionale e inflessibile. La sfida pauperista-comunista lanciata oggi a tutti i livelli non consente tentennamenti né equivoci, pena l’autodistruzione.


di Renato Cristin