Per Conte la parola “domani” è per sé. E il Paese?

giovedì 14 gennaio 2021


Allo stato degli atti è quasi impossibile sapere come si evolverà una crisi che solo apparentemente e strumentalmente viene definita sbagliata e pericolosa per via della pandemia. In realtà, l’abbandono della maggioranza da parte di Italia Viva ha concrete origini dall’arrivo di una pioggia di miliardi del Recovery fund, su cui il beneficiato Giuseppe Conte non ha avuto l’accortezza – cioè l’intelligenza politica – di aprirsi, chiamando alla collaborazione ben altri che i soliti componenti di task force e commissioni tecniche, peraltro destinati al classico usa e getta in nome della solita gestione personalistica del miliardario generoso contributo europeo. Definito dal nostro Cristofaro SolaInferno e paradiso e che comunque dovrà essere portato avanti non come progetti casuali, come una elemosina a pioggia di bonus elargiti con pratiche para-clientelari, ma seguendo criteri e modalità nei quali le indicazioni dell’elargitore si fanno sentire. È evidente che la mossa renziana, provocando le dimissioni di Conte, viene giustificata anche dalla manifestata debolezza, per non dire peggio, di un esecutivo incerto e traballante che è riuscito bene o male a gestire l’emergenza, ma che – come detto da molti – non è in grado di offrire garanzie per la programmazione e realizzazione del Recovery, le cui risorse e i cui benefici si proiettano in un domani molto al di là della durata di qualsiasi Governo. Il Recovery è, dunque, la chiave di volta per la ricostruzione e ripresa di un Paese in grandi difficoltà, al cui domani è d’obbligo guardare.

Già, il domani. La parola domani, se ci si fa caso, sta scomparendo dalla narrazione che la politica di Conte ha svolto in questi due anni nelle sue trasformistiche altalene da una maggioranza di un colore a un’altra di colore opposto ma sempre con lo stesso premier. Il che deve innanzitutto mettere in evidenza la più vera e unica filosofia ispiratrice: la conservazione del potere, il tirare a campare, la sopravvivenza a tutti i costi, che riguarda proprio quei grillini un tempo non lontano con gli apriscatole in mano per aprire il Parlamento, ma ora ben saldi alle poltrone ministeriali. E per mantenere il potere acquisito, un sorprendente Beppe Grillo se ne è uscito invocando una sorta di Governo di larghe intese, ma sempre e comunque guidato dal Giuseppe Conte ter, onde evitare elezioni anticipate. Un pericolo tanto sbandierato pour épater le bourgeois ma ben evitabile, a cominciare dal Quirinale e dallo stesso Renzi, che chiede semmai la testa di Conte. Le sue dimissioni, termine sconosciuto nel vocabolario contiano, ma ben presente dalle parti del Quirinale. Più che al domani del Paese è al suo che Giuseppe Conte guarda, sicuro dell’appoggio dell’alleato Partito Democratico e dei “responsabili” di Clemente Mastella per proseguire un cammino, sia pure zoppicante, ma comunque sempre da lui condotto, sfidando Matteo Renzi nella guerra dei numeri in Parlamento. Una sfida nella quale il premier non ha valutato appieno la posizione di un Renzi che, a parte le due ministre, ha poco o nulla da perdere se non le catene che lo legano alla gestione di un Governo non soltanto con l’uomo solo al comando, ma inadatto e incapace nella gestione di quel Recovery su cui si scommettono le sorti dell’Italia.

Il problema è politico. E se si osservano i diversi momenti decisionali di Conte si noteranno, oltre alla inesauribile tecnica del manzonianolenire e sopire”, quella del rinvio che attiene non soltanto la personalità del presidente del Consiglio, ma la politica di una maggioranza senza un preciso programma, senza una visione d’insieme, senza un orizzonte, e condizionata da un M5S che ha archiviato le roboanti parole d’ordine incapace com’è di proporre progetti, coniugandosi con innovazioni e modernità ma, al contrario, imitatrice delle pratiche dorotee dei ministeri d’antan con le miliardarie elemosine ai clientes e oggi distribuite a pioggia sotto forma di bonus. Cosicché, le riforme promesse a parole sono finite nel cassetto e, quanto a quella della giustizia del ministro Alfonso Bonafede sulla prescrizione, è una vera e propria controriforma, approvata da un oggi pentito Matteo Renzi. Del resto, la riduzione del numero dei parlamentari posta come un sine qua non dai grillini, non riforma assolutamente le funzionalità di un bicameralismo confermandone, semmai, profondi ritardi e difetti da doppione. Sono i risultati del populismo al Governo contraddistinto da promesse salvifiche e rivoluzionarie, per guadagnare consensi dai troppi allocchi, salvo risolversi in parole e paroloni pur di rimanere incollati a quelle poltrone che giuravano di aborrire perché fonte di corruzione.

Quanto alla politica dei bonus, va detto che è contro le necessarie chance per un Paese, perché sostanzialmente parassitaria non producendo crescita ma debiti e non preccupandosi del futuro, ma soltanto di un presente per conservare un potere il cui rischio, per l’Italia, sta anche e soprattutto nella gestione delle risorse di Next Generation Eu e Recovery.


di Paolo Pillitteri