Ditelo a Beppe Grillo: anche i parlamentari hanno una coscienza

I pentastellati, per non smentire la propria natura di nemici giurati dello Stato di diritto, che si industriano di smantellare pezzo per pezzo, il più delle volte senza neppure capire il senso stesso delle loro operazioni – le quali evidentemente sono troppo complicate per esser comprese da quelli medesimi che le pongono in essere – hanno presentato un progetto di riforma costituzionale destinato ad abolire il divieto di mandato imperativo nei confronti del parlamentare eletto. Tale divieto sta a significare che, una volta giunto in Parlamento, il parlamentare eletto non è tenuto a rispondere del proprio operato agli elettori che lo abbiano votato, se non in sede puramente politica, mai giuridica o, peggio, costituzionale. In tutti gli Stati costituzionali, cioè in tutti gli Stati di diritto occidentali, come li conosciamo, vige questo sacrosanto principio del quale subito cercherò di spiegare le ragioni e gli scopi, mentre – guarda caso – il principio opposto, quello cioè del mandato vincolato che i pentastellati vorrebbero introdurre nel nostro ordinamento costituzionale, è presente nelle democrazie popolari di stampo sovietico o comunque fortemente autocratiche. Ma i pentastellati ovviamente lo ignorano oppure, cosa assai più probabile, pur sapendone abbastanza, ne gioiscono, in quanto cromosomicamente ostili ad ogni baluginare del diritto quale garanzia della persona umana.

Perché, dunque, le Costituzioni dello Stato di diritto stabiliscono provvidenzialmente che il parlamentare è libero, una volta eletto, di agire come meglio crede? Innanzitutto va detto che – contrariamente a quanto più volte affermato e ribadito dallo stesso Beppe Grillo – il mandato elettorale, che è di valenza pubblicistica, non ha nulla da spartire con il mandato di diritto privato, vale a dire con quel contratto in virtù del quale il “mandante” incarica il “mandatario” di fare qualcosa nel proprio interesse: qui è ovvio che se questo viene meno o trasgredisce il mandato ricevuto, può esser chiamato a risponderne anche per mezzo di un risarcimento del danno, perché il mandatario è vincolato alla volontà del mandante. Si dà invece il caso – e dò qui mandato, che qualcuno lo dica a Grillo – che l’elettore non è propriamente un mandante né l’eletto un mandatario nel senso del diritto dei privati, ma si collocano entrambi sul palcoscenico del diritto pubblico che disciplina i rapporti istituzionali e non certo privati. Ne viene che, non essendo l’elettore un mandante, non potrà in alcun caso chiedere conto all’eletto, che non è un suo mandatario: fra i due esiste, invece, un rapporto di rappresentanza politica, che significa “fiduciaria”, il quale garantisce la libertà di ogni eletto. Prova ne è che, come recita la nostra Costituzione, ogni parlamentare rappresenta la Nazione intera (e non lo Stato) e non il semplice gruppo sociale cui egli fa riferimento e che lo ha portato al seggio votandolo.

Non si tratta di un banale dettaglio, ma di un principio politico-costituzionale denso di significato, proprio perché certifica come il parlamentare sia svincolato dal gruppo sociale che lo abbia eletto, rimanendo invece investito di un compito molto diverso e di portata assai nobile: quello di parlare ed agire per conto e nell’interesse di tutto il popolo (equivalente di Nazione) e non solo di alcuni. Non solo. L’operatività pratica della non vincolatività del mandato politico elettorale comporta due benefici effetti, che sono irrinunciabili per lo Stato di diritto e che si capisce risultino, per questo, assai sgraditi per i pentastellati. Da un primo punto di vista, la libertà d’azione permette al parlamentare di muoversi senza restare soggiogato dalle direttive del partito di appartenenza, perfino di votare contro le indicazioni del segretario se, in coscienza, ritenga necessario farlo. Permette, insomma, né più né meno che la libertà della sua coscienza quale organo di giudizio, facendone un essere umano e non un burattino nelle mani di altri. E questo è un bene sommo davvero irrinunciabile. Non ci vuole molta applicazione per capirlo, forse neppure per un pentastellato.

Ovviamente, questa libertà ha un prezzo: che si commettano errori, che se ne abusi – cambiando casacca di gruppo politico ad ogni battito di ciglia – che la si venda al miglio offerente. Ma, a ben guardare, è quanto accade tutte le volte che si debba far i conti con la libertà e con la sua dialettica: accade quando dobbiamo esercitarla, cioè quando siamo chiamati a portarne il peso, perché la libertà, per definizione, inclina al bene come la male. Ma che inclini anche al male non è un buon motivo per eliminarla: se lo si facesse, cesseremmo subito di qualificarci come uomini pensanti, venendo relegati nel novero degli automi eterodiretti (che è forse il sogno nel cassetto di ogni pentastellato). Dal secondo punto di vista, l’assenza del vincolo comporta una irrinunciabile tutela per il parlamentare quando egli si trovi, come accade, a far parte di una minoranza. Siamo di fronte all’altro principio tipico delle democrazie liberali, quello della tutela delle minoranze. Non essendo vincolato dal mandato elettorale, egli può aggregarsi ad altri gruppi anche di diversa provenienza ideologica allo scopo di veder aumentare il proprio “peso” politico, può disaggregarsi quando lo ritenga opportuno e così via. Sicché, alla luce di queste considerazioni, rinunciare alla piena libertà del parlamentare, introducendo il vincolo di mandato, significherebbe infliggere un colpo esiziale al tessuto stesso dello Stato di diritto, perché implicherebbe la morte della coscienza dei parlamentari, ridotti a docili strumenti in mano altrui. Ecco allora cosa davvero vogliono, lo sappiano o no, i pentastellati: che i parlamentari si riducano a dei fantocci. Senza coscienza.

Aggiornato il 21 gennaio 2021 alle ore 11:06