Governo Conte, God save Ciampolillo

Lo spettacolo al quale abbiamo assistito, ieri l’altro, dall’arena del Senato è stato scandaloso. Un indecente mercato delle vacche messo in piedi dal presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, a spese degli italiani, che volentieri se lo sarebbero risparmiato. Ma anche questa è politica e non serve a nulla arricciare il naso perché è così che va la vita. Prendiamone atto e sforziamoci piuttosto di capire cosa sia effettivamente accaduto e cosa dovremmo attenderci d’ora in avanti. A cominciare con lo stabilire chi ha vinto e chi ha perso in questo patetico litigio di galli da pollaio. Già, perché asserire mestamente che in frangenti tanto tumultuosi non vi siano vincitori ma soltanto vinti è una frase a effetto, bella ma vacua. Quando si lotta per la sopravvivenza (anche politica) c’è sempre qualcuno che ha la peggio e qualcun altro che ne esce ringalluzzito perché le ha suonate all’avversario. Sul ring del Senato sono saliti Matteo Renzi e Giuseppe Conte. Stando al referto arbitrale avrebbe vinto ai punti “l’avvocato del popolo” mentre lo sfidante da Rignano sull’Arno, come si dice a Oxford, l’avrebbe presa in saccoccia.

Tuttavia, la verità fattuale racconta un’altra storia. Il leader di Italia Viva ha colpito duro e ha mandato al tappeto l’avversario che d’ora in avanti camminerà con le stampelle, sempre che vi riesca. Già, perché i supporti che lo hanno tenuto in piedi per aggiudicarsi sottomisura il match al Senato sono della stessa materia di cui sono fatti i trenta denari di Giuda. E le promesse di fedeltà strappate a suon di pagherò ai novelli “volenterosi” non sono scritte sulla pietra ma sulla sabbia: basterà un’onda di risulta per cancellarne ogni traccia. Renzi è stato spericolato, ai limiti della follia suicidaria, nello sfidare Conte a quel modo ma è così che si comportano al tavolo verde i grandi giocatori di poker per terrorizzare gli sfidanti: al momento giusto puntano tutto anche se in mano non hanno niente. Si chiama bluff. Italia Viva era condannata all’irrilevanza nel Conte bis. Il premier, nonostante gli insoddisfacenti risultati dell’azione di governo, stava crescendo in popolarità e penetrazione nei gangli dell’alta Amministrazione pubblica. A Renzi s’imponeva un colpo d’ascia per troncare lo status quo. Doveva però fare attenzione a non rompere irreparabilmente il gioco precipitando la maggioranza verso la fine traumatica della legislatura: avrebbe significato la prematura dipartita (politica) sua e dei suoi sodali. Quindi, la genialata: sfiduciare Conte senza votargli contro. La decisione del gruppo per l’astensione sulla mozione di fiducia nonostante il suo leader avesse pronunciato in Aula un discorso di profilo alto ma di contenuto demolitorio sull’azione di governo è stata un colpo magistrale. A Bisanzio sarebbero stati fieri di lui.

Ma l’audacia non basta se non è sorretta da una robusta dose di fortuna. E quella ha fatto capolino al momento giusto perché il capolavoro si completasse: il Conte bis in Senato non ha la maggioranza assoluta e quella relativa si è fermata a quota 156, che corrisponde alla somma dei voti contrari (140) e degli astenuti (16) giunti dalla pattuglia di Italia Viva. Non bisogna essere scienziati della politica per comprenderne il palmare significato: senza i voti dei renziani il Governo salta. A chi allora assegnereste la vittoria in uno scenario così riconfigurato? Dal canto suo, Giuseppe Conte lo si potrebbe definire tecnicamente un’anatra zoppa (dall’espressione anglosassone lame duck) ma, alla luce della reazione dei suoi sostenitori, oltre che zoppa anche cieca e rincitrullita. Con la rottura Renzi non perde il Governo, lo guadagna. Più propriamente, ne conquista la golden share dai banchi dell’opposizione. D’ora in avanti qualsiasi provvedimento l’Esecutivo vorrà far passare in Parlamento dovrà contrattarlo con Italia Viva, pena la bocciatura. Accadrà in Aula, ma ancor più nelle Commissioni parlamentari dove, per effetto del cambio di posizione dei renziani, la coalizione Partito Democratico-Cinque Stelle-Liberi e Uguali non ha più la maggioranza. Al riguardo, Matteo Renzi ha fatto sapere che si prepara a bocciare la relazione sull’amministrazione della Giustizia che il ministro Alfonso Bonafede presenterà alla Camera dei deputati la prossima settimana: sarà una goduria. Se accadrà, il Conte bis, rinato ieri l’altro dalle sue ceneri, cadrà rovinosamente. E questo non è che l’antipasto di ciò che attende la maggioranza nelle prossime settimane: guerriglia parlamentare tanto dura da fare impallidire perfino i Vietcong.

Checché ne pensino i grillini, posto che sia rimasto loro un barlume di lucidità, toccherà fare i conti con gli odiati ex-alleati di Italia Viva molto più spesso e a un prezzo ben più oneroso di quello pagato finora in seno alla maggioranza quadripartito. Giuseppe Conte si è intestardito nella ricerca dei peones “volenterosi”, cioè transfughi da cooptare all’interno della maggioranza, pur di continuare a galleggiare, segno che è sempre valido il detto secondo cui al peggio non v’è mai fine. Lui sarebbe disposto a scendere a patti con Satana in persona se ciò servisse a non dover tornare a negoziare con l’odiato Renzi. Ma s’illude, perché senatori e deputati (quasi) sempre sono sensibili alle profferte generose ma non sono fessi. In particolare, quelli dell’area moderata che è andata a rimorchio della locomotiva del centrodestra. Sono i senatori dell’Unione di Centro (Udc) le prede ambite della campagna acquisti del premier Conte. Posto che tutto possa succedere perché la natura umana è bizzarra, per quale misteriosa ragione un esponente di un micro partito che ha avuto la garanzia di essere inserito nel pacchetto di mischia della squadra data vincente alle prossime elezioni (la destra plurale) dovrebbe preferire concedersi a un improbabile venditore di tappeti che, nella migliore delle ipotesi, ha un’aspettativa di vita al governo del Paese non superiore ai fatidici ventiquattro mesi dalla fine naturale della legislatura? Va bene il piacere sadico, ma anche il masochismo conosce limiti. Preveniamo la legittima obiezione dei disgustati dal teatrino da tre soldi della politica politicante: c’è, fuori dal Palazzo, un Paese che soffre e paga il conto dei giochi di potere. Ma davvero qualcuno pensa che della condizione degli italiani freghi qualcosa agli occupanti la stanza dei bottoni? La sovranità popolare è finita chiusa in un ripostiglio del Quirinale e lì resterà per un bel pezzo dal momento che ciò che conta oggi, più del volere degli italiani, è il mantenimento dello status quo con un governo barzelletta tuttavia funzionale a interessi di potere estrinseci di prevedibile tracciabilità.

La destra protesta e in giornata salirà al Colle a lamentarsi e insisterà nel chiedere lo scioglimento anticipato delle Camere. Ma non se ne farà nulla perché resiste una conventio ad excludendum della destra a trazione sovranista. L’Italia ha già conosciuto una simile condizione quando, negli anni della Guerra Fredda, il Partito Comunista Italiano fu tenuto rigorosamente fuori dai 47 governi succedutisi in 46 anni di vita repubblicana, a partire dal 1948. In quel caso, l’emarginazione sistematica del Pci, interrotta solo dagli Esecutivi della “non sfiducia” guidati da Giulio Andreotti tra il ‘76 e il ‘79 (VII legislatura) nel pieno degli “Anni di piombo”, trovava giustificazione nella vicinanza organica all’Unione sovietica del più grande partito comunista dell’Occidente. Oggi il veto a soluzioni di governo che coinvolgano i partiti della destra sovranista giunge dal cuore dell’Europa carolingia, da luoghi prossimi agli italici confini. Renzi può continuare tranquillo a stringere la corda intorno al collo del premier Conte, perché lassù, dove si respira aria di collina pur restando nel ventre capitolino, c’è qualcuno che vigila a che la corda non si spezzi. Per gli appassionati di reality e di wrestling lo spettacolo è assicurato. Ancora per parecchio.

Aggiornato il 21 gennaio 2021 alle ore 10:05