Crisi: eppur si muove... forse

L’abbiamo capito tutti. Questa è la crisi più pazza del mondo. E Giuseppe Conte ne è il suo attore principale. Che vuole restare sul palcoscenico anche quando il sipario comincia a chiudersi. Il teatrino della politica si conferma in tutto il suo più pieno significato. In una fiction potremmo chiamare fermo d’immagine quella sua pervicace immobilità a Palazzo Chigi, che coincide con l’immobilismo che ha impedito fino ad ora una svolta, uno sbocco, una via d’uscita dall’impasse, dal pantano in cui si dibattono i protagonisti. Certo, la sua salita al Quirinale è un segnale di movimento, più imposto dalla decenza che convinto. Poi si vedrà, come si dice.

Un pantano inedito nella storia del Paese “dove non si è mai vista una situazione simile dalla nascita della Costituzione: un signore nessuno, un avvocato che governa prima con la Lega poi con i Dem e che vorrebbe governare a vita” e dove il Parlamento ha vissuto un susseguirsi per giorni e notti della affannosa ricerca di un ensemble di un gruppo di raccogliticci, spacciati per responsabili liberali, popolari, socialisti, europeisti. Lo spettacolo grottesco della politica italiana. Intorno a Giuseppe Conte si sono create delle leggende, a cominciare dalla inevitabilità di elezioni anticipate già dalle sue dimissioni (che avrebbe dovuto dare per l’abbandono di un partito e dei suoi ministri) imponendo il dogma della sua insostituibilità, sommata ad una personale furbizia del tutto inaspettata ma che, nella storia e nella politica, ha invece confermato che il più furbo non esiste. Chi ha contribuito in modo decisivo all’imporsi di leggende e dogmi è stato, fino ad ora, il partito di Nicola Zingaretti, tetragono nella difesa perinde ac cadaver di un premier e di un governo di cui lui stesso ha richiesto un cambio di passo, ma soffermandosi sulla soglia di quella difesa, anche se piccoli passi si avvertono in quel corpaccione, negli avvertimenti, negli allarmi per una situazione che diventa senza sbocchi, proprio per la cattiva volontà di quel quieta non movere per non disturbare il manovratore. E avanti così, nel duello all’arma bianca contro il disturbatore Matteo Renzi.

Tutto questo accade in un partito che, a suo modo, è il discendente di una tradizione con una sua presenza di primo piano nella storia del nostro dopoguerra. Ma in quella che fu comunque una politica, sia pure di gravi errori e di omissioni, ha da anni prevalso la pura conservazione del potere, e che proprio nei numerosi cambi di nome ha progressivamente svuotato quella storia: da Palmiro Togliatti a Giuseppe Conte. Per di più nel centenario strombazzato dell’avo del Partito Democratico. Svuotamento, si diceva, ma la parola esatta è inquinamento ad opera dell’avvento sul palcoscenico, con gli strabilianti consensi elettorali della distruttiva antipolitica di un grillismo che ha imposto un vero cambio di passo della stessa democrazia, avvelenandone i pozzi e delegittimandone l’essenza con quell’apriscatole impugnato nella cattura di milioni di voti, ingannandone gli arrabbiati per accedere al Governo e dando così forma istituzionale all’ideologia del Vaffa, di cui Giuseppe Conte è l’epigono e il primo attore. Fino a quando? Bisognerà chiederlo al suo comprimario, nonché inossidabile alleato Zingaretti. E, con rispetto parlando, al Quirinale.

Aggiornato il 26 gennaio 2021 alle ore 11:39