Il reddito Isee è il simbolo della burocrazia nociva

martedì 23 febbraio 2021


Implacabile con chi è in difficoltà, generoso con i criminali e i furbi. “Signori” – parafrasando una battuta di Woody Allen rivolta alla madre ortodossa ebrea e un po’ ossessiva – “vi presento la certificazione reddituale Isee (Indicatore della situazione economica equivalente)”. Già l’impostazione è un inno – anzi un simbolo – della burocrazia nociva: non conta quanto hai in tasca ma quanto potresti avere. Sembra fatta apposta per favorire chi può rendersi “nullatenente” in una settimana, intestando i beni immobili e anche quelli mobili a lontani ma fidati familiari o ad altrettanto fidati “amici”. E nel Sud e in alcune zone del Nord Italia anche agli “amici degli amici”. Sempre fidatissimi.

Nell’Isee il bersaglio ideologico della valutazione reddituale è compulsivamente e ossessivamente tarato sulla casa. Soprattutto se di prima abitazione. Esenzione che non vale se uno sta in affitto altrove, come spesso accade quando si lascia la casa dei genitori. Feroce poi l’accanimento contro chi osa averne più di una di casa avìta, magari quella di vacanza in un lontano paese del Sud o del Nord. Il tutto peggiorato da ulteriore pregiudizio negativo, se le case sono state ereditate. Va detto, in premessa, che dal dopoguerra ad oggi la politica e i vari governi succedutisi hanno lavato il cervello a tutti gli italiani, quasi “costringendoli” a comprarsi una prima casa per sé e per i figli. E, quindi, era evidente che in mezzo secolo un Paese, che ha goduto negli anni della Prima Repubblica di un benessere che oggi ci sogniamo, desse retta a quel prospettato modello di sviluppo.

Invece era una trappola: le azioni si possono facilmente alienare o fare sparire. Le case no. E se non sei il figlio di un “previdente camorrista” di quelli che hanno decine di teste di legno cui intestare i propri possedimenti onde risultare nulla tenenti, è inevitabile che resti con cerino catastale in mano. Risultato? La casa, anche se di paese o di campagna, anche se avìta, cioè ereditata da padri o persino da nonni, viene considerata come un cespite attivo di reddito. Quasi uno possedesse azioni che fruttano un ricco rendimento con relativa cedola.

Viceversa, la casa – bersaglio ideologico del fisco o meglio dell’idea di fisco tipica del centrosinistra (dei grillini neanche a parlarne prendono sempre il peggio da entrambi gli schieramenti classici) – è stata negli ultimi 30 anni sommersa da tali e tante tasse locali e nazionali da renderla pressoché una voce concretamente passiva nella situazione del patrimonio del singolo. Notoriamente poi in Italia il mercato degli affitti, per molti privati che non abbiano uno studio legale a disposizione e a stipendio forfettario, come quello degli enti immobiliari privati e pubblici, tra cui quelli previdenziali in primis, è pressoché inaccessibile: ti metti uno in casa che ti può pagare per un piccolo o anche un lungo periodo, ma che poi può decidere impunemente di non continuare a farlo. Uno lo sfratta. Ma solo sulla carta e dopo anni di perdite incalcolabili. Infatti, tutti sanno che la proroga dell’esecuzione degli sfratti, anche quando l’inquilino moroso è molto ma molto più ricco del proprietario dell’immobile, è ormai un articolo della Costituzione occulta e materiale del Paese che, però, è molto più cogente di quella scritta. Un tabù che nessuno osa mettere in discussione. In sostanza, per una persona senza reddito fisso ereditare una casa, anche di un certo valore, può diventare un handicap economico di cui tutti sanno ma nessuno vuole riconoscere il problema politico.

In molti casi, più è alto il valore del bene immobile ereditato più sarà difficile gestirlo economicamente: una casa all’Olgiata può costare fino a 15 o 20mila euro di Imu annui. Se uno non guadagna abbastanza, come fa a pagarli? Laddove, invece, un appartamento a via Condotti che si vende nella metà della metà del tempo e magari al doppio del valore della villa all’Olgiata, grazie ad accatastamenti diversi sedimentati nel tempo, magari paga un Imu infinitamente minore. Di queste problematiche tutti fanno finta di niente, perché è più remunerativo dal livello elettorale accompagnare un “ricco” verso la povertà che fare diventare benestante un miserabile. Il paradosso finale è che chi ha ereditato una casa che non può permettersi di mantenere e che non riesce a vendere in fretta – spesso passano anni e anni – non avrà mai alcun aiuto dallo Stato, perché quella stessa casa che costa a lui come “un figlio scemo”, per dirla alla romana, viene calcolata dalla burocrazia nordcoreana che sottostà alla ratio del reddito Isee come una fonte, teorica, di reddito. Anche se resta vuota, sia per l’impossibilità di affittarla “in sicurezza” – per usare un’espressione di cui in realtà si abusa – sia per la difficoltà nella vendita.

Infine, se passano gli anni e diminuiscono o finiscono i soldi, c’è anche il rischio che il bene possa venire ipotecato dallo Stato o dai Comuni che non si vedono più pagare l’Imu dovuta. A quel punto, il sogno di chi sotto-sotto ha sempre considerato la proprietà un furto e quella ereditata addirittura una rapina a mano armata, si avvera: il malcapitato soccombe e tutti continuano felici e contenti a riempirsi la bocca di frasi retoriche come “nella pandemia nessuno verrà lasciato indietro”. Stupidaggini, buone solo per i talk show. “Signori vi presento la fiscalità italiana”, parafrasando di nuovo Woody Allen, è la battuta che funge da epilogo inevitabile di questa dis-educativa storiella. Di fatto, il sistema che assegna i benefici ai bisognosi secondo l’artifizio del “reddito Isee” è una “truffa”. Ed è l’uovo-truffa che viene prima della truffa-gallina del reddito di cittadinanza.


di Dimitri Buffa