Transizione grillina verso l’incognito

martedì 2 marzo 2021


E pur si muove. Dopo aver inanellato una serie di insuccessi sul fronte governativo e aver perso appeal elettorale, il Movimento Cinque Stelle prova a uscire dal caos in cui è sprofondato. Ma lo fa a suo modo, con le decisioni calate dall’alto di un padre-padrone (Beppe Grillo) assillato dalla paura che il giocattolo gli si rompa tra le mani. E allora al diavolo le regole, le consultazioni degli iscritti, l’uno-vale-uno, la democrazia diretta filtrata attraverso la piattaforma digitale Rousseau: decide il capo e punto. Così accade che nella quiete domenicale di una Roma sonnacchiosa, l’Elevato di Sant’Ilario (Beppe Grillo) riunisca intorno al desco gli apostoli sopravvissuti della sua rivoluzione contro le “scatolette di tonno” per comunicare che la festa è finita e che se si vuole salvare quel poco che resta del Movimento bisogna arruolare l’outsider Giuseppe Conte e affidargli il compito di rifondare un qualcosa che sia un minimo commestibile per i palati sempre più raffinati degli elettori.

Sembrerebbe una buona cosa: il passaggio dei grillini dall’età dell’innocenza, caratterizzata da un tratto profondo di infantilismo politico, alla maturità di una compiuta forma partito. Ma sarà l’ennesimo buco nell’acqua che non cambierà il destino di un movimento giunto alla fine della sua parabola. Perché? Non che in passato siano mancati esempi di formazioni movimentiste che, nel corso della loro storia, abbiano vissuto importanti trasformazioni da forze di lotta a forze di governo. Tutte queste, però, condividevano un elemento fondamentale per l’aggregazione del consenso popolare: avevano un’idea di società e di futuro da realizzare e i cambiamenti in corso d’opera riguardavano mezzi, modalità, organigrammi, parole d’ordine dell’idea a cui tendere, non la sua ragion d’essere. Al riguardo, i grillini rappresentano un unicum. Qual è la loro idea di società, di là dagli slogan di un trito ambientalismo strettamente imparentato all’utopia distorcente della decrescita felice? E l’idea, posto che esista in forma articolata, è trasferibile nell’organizzazione che si apprestano a varare? Abbiamo conosciuto il Cinque Stelle come strumento di canalizzazione della protesta sociale contro la partitocrazia.

Nella fase critica della globalizzazione, il Movimento si è costituito quale sovrastruttura di contrasto all’egemonia totalizzante del neo-liberismo, in concorrenza col sovranismo antimondialista di fresco conio della Lega di Matteo Salvini. Poteva piacere o meno, ma sapevamo cosa fossero i grillini e a chi il capo-comico carismatico si rivolgesse con i suoi “Vaffa!”. Poi, tre anni di giravolte nell’esercizio del potere da parte di chi un mestiere vero e proprio, nella maggioranza dei suoi esponenti, non l’ha mai avuto, hanno indotto buona parte dell’opinione pubblica a classificarli astuti “poltronari” ossessionati dall’attaccamento alla cadrega, privi di alcuna pretesa né esigenza di rappresentare una cultura, una storia, una visione. Un non-partito buono per tutte le identità per il fatto di non possederne una propria. Oggi, invece, scopriamo che a giudizio di Luigi Di Maio, l’uomo forte del grillismo di governo, una camicia politica da indossare vi sarebbe: quella di forza moderata e liberale. Sarà vero, ma guardando in faccia personaggi del calibro di Alfonso Bonafede, Vito Crimi, Roberto Fico e, per non far torto alla parità di genere, Paola Taverna, Carla Ruocco, Roberta Lombardi, limitandosi ai più noti, viene difficile dare credito alla boutade liberal di Luigi Di Maio.

Dal canto suo, Giuseppe Conte deve averci pensato parecchio prima di accettare l’investitura offertagli dal comico genovese. Per lui si è trattato di scegliere se prendere l’uovo oggi o degustare la gallina domani. Ha optato per l’omelette. Diventare adesso capo-partito gli consente di non dispendere quel capitale di notorietà acquisito durante gli anni di governo. Sappiamo bene che nel tempo storico della società dell’immagine, sparire dai radar dei media, e anche del gossip, anche solo per qualche settimana avrebbe fatto calare il gradimento che i sondaggi gli assegnano. Tra qualche mese, in piena “cura Draghi”, chi si sarebbe ricordato dell’avvocato del popolo e della sua pochette? Meglio l’uovo subito anche se ciò gli impedirà di tirare il collo alla gallina domani. E la gallina della metafora è il ruolo di federatore del centrosinistra che il Partito Democratico, in deficit di figure carismatiche aggreganti oltre il tradizionale perimetro della sinistra post-comunista combinata al popolarismo dei cattolici dossettiani, avrebbe volentieri riconosciuto a una figura terza non intruppata in alcun partito della coalizione. Conte come un novello Romano Prodi da chiamare in causa a tempo debito, per rimettere insieme qualcosa di simile all’Ulivo degli anni d’oro della contrapposizione frontale con il centrodestra a guida berlusconiana. Diventando “Giuseppi” leader dei pentastellati tale possibilità è svanita. A meno che non torni attuale la strategia a lunga gittata che Beppe Grillo elaborò all’indomani della rottura del patto di governo con la Lega: portare il Movimento a confluire nel Partito Democratico. In tal caso, Conte potrebbe tornare ad essere una figura centrale. Consci di non avere più un futuro politico come soggetto collettivo autonomo, i vertici pentastellati potrebbero essersi fatti convincere da Beppe Grillo a porre in liquidazione la ditta e a predisporsi alla transizione verso il partito più consistente del campo del centrosinistra potendo recare in dote il residuo consenso elettorale di cui gode Giuseppe Conte. Un contributo prezioso per risolvere in senso favorevole ai candidati del Pd le sfide con il centrodestra alle prossime elezioni amministrative. In tale scenario, l’ex “avvocato del popolo” dopo lo sfratto, dolorosissimo, da Palazzo Chigi potrebbe ricollocarsi sulla scena politica scalando dall’interno la leadership del centrosinistra. Che è sempre meglio che terminare i propri giorni da anonimo docente universitario.

L’eventuale Opa di Conte sul Pd sarebbe favorita dalla particolare condizione di debolezza della segreteria di Nicola Zingaretti e dalla turbolenza interna al partito che, per la natura e la personalità dei capicorrente, richiama alla memoria l’Alto Medioevo dell’anarchia feudale. Per centrare l’obiettivo Giuseppe Conte avrà chiesto e ottenuto da Beppe Grillo carta bianca nella gestione delle fasi di “rifondazione” del Movimento. Comunque, la manovra causerà contraccolpi. La prima vittima del nuovo corso sarà Davide Casaleggio con il gruppo ambrosiano di gestori della piattaforma Rousseau. L’avvocato di Volturara Appula non vorrà tenersi sulla testa la spada penzolante del voto degli iscritti sulle sue scelte. Dal canto suo, l’erede del “visionario” Gianroberto sarebbe come un pesce fuor d’acqua all’interno dei nuovi assetti di partito ridefiniti dalla deviazione centrista e moderata, voce dal sén fuggita di Luigi Di Maio ma che è totalmente nelle corde di Giuseppe Conte. E visto che in politica i vuoti si occupano, non è da escludere che intorno a Casaleggio junior possa ritrovarsi per un’adunata revanscista la vecchia guardia dei duri e puri del grillismo antisistema della prima ora, in fuga dai gruppi parlamentari pentastellati.

Lo spazio dell’opposizione al Governo Draghi, oggi consegnato interamente a Fratelli d’Italia, potrebbe stimolare l’entusiasmo dei fuoriusciti grillini a scavalcare a sinistra una costituenda coalizione “contiana”, nel segno della restaurazione di una rappresentanza politica e programmatica coerente con i presupposti originari del Movimento ordinato alla “visione” di Gianroberto Casaleggio. Come risponderanno gli elettori alle novità in casa grillina è tutto da verificare. Ma se fossimo nei loro panni, non ci faremmo troppe illusioni. Perché certi amori, quando finiscono, non ritornano.


di Cristofaro Sola