Salvini e il calumet della pace

Matteo Salvini chiede a Mario Draghi di guidare un processo di pacificazione della politica. Sembrerebbe una proposta di buonsenso. Nella realtà è una boutade. Spiace per Salvini, ma la sua iniziativa è quanto meno ingenua. Non esistono i presupposti perché in Italia si ricomponga un dialogo civile tra la sinistra e la destra. Il problema è culturale, storico e antropologico. Esiste un mondo di sinistra che odia quelli di destra. Sentimento talvolta ricambiato. La proposta, orrenda ma sincera, di Giuseppe Provenzano, vicesegretario del Partito Democratico, di mettere fuori dalle istituzioni repubblicane Giorgia Meloni e il suo partito è nutrita da un’ostilità che ha radici profonde. In passato, il Partito Comunista italiano aveva tentato di bandire il Movimento Sociale italiano dalla vita democratica. Non vi riuscì grazie all’opposizione della Democrazia Cristiana.

Tuttavia, l’avversione viscerale della sinistra verso il nemico di destra è covata come fuoco sotto la cenere, nonostante la stagione berlingueriana ne avesse mitigato i toni più aspri. Per inciso, una correzione è dovuta a un’asserzione del direttore de “Il Riformista”, Piero Sansonetti il quale, in un’intervista aIl Giornale”, ha sostenuto che:” Il terribile e feroce Pci non ha mai chiesto di mettere fuori legge l’Msi che certamente era molto più legato al fascismo di FdI”. In realtà, il Pci provò a mettere fuori gioco il nemico nel 1961 (III Legislatura), con il disegno di legge d’iniziativa del senatore Ferruccio Parri per lo Scioglimento del Movimento sociale italiano in applicazione della norma contenuta nel primo comma della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione. Nel corso del dibattito parlamentare la relazione di minoranza la svolse il senatore Pietro Secchia, esponente dell’ala “leninista” del Pci dalla fine degli anni Quaranta fino alla sua uscita di scena dalla politica in netto dissenso con la svolta rinnovatrice imposta al partito da Palmiro Togliatti.

Non a caso citiamo Secchia. Al suo ideale insurrezionalista, secondo cui il lavoro cominciato in Italia dai comunisti con la Guerra civile del 1943 per l’instaurazione della dittatura del proletariato dovesse essere portato a termine, si sono ispirati il brigatismo e in generale la galassia extraparlamentare rossa degli anni Settanta-Ottanta dello scorso secolo. Ed è in quel tragico tornante della storia nazionale che va ricercata la causa ostativa di una pur auspicabile pacificazione. La guerra totale allo Stato borghese, di rimando alla struttura sociale tradizionale che ne costituiva la spina dorsale e alle forze partitiche che la rappresentavano, è stato il totem della “Contestazione” che dal Sessantotto, con altri mezzi e altri soggetti, è sfociata negli “Anni di piombo”. I protagonisti di quella fase sanguinosa furono sconfitti dalla reazione dello Stato, supportata dal Partito Comunista di Enrico Berlinguer che sbarrò la strada al terrorismo rosso.

A destra si produsse specularmente un analogo scenario: il Movimento Sociale italiano di Giorgio Almirante contrastò senza tentennamenti i gruppuscoli che nuotavano nello stagno dell’eversione nera. L’impegno speso su entrambi i fronti per difendere lo Stato dalla minaccia terrorista, che fosse di destra o di sinistra, condusse, se non a un reciproco riconoscimento, a un rispetto maggiore tra due parti che non cessavano di percepirsi nemiche. Il momento che simbolicamente suggella l’embrione di un cambio di clima è l’episodio, poco raccontato dalla vulgata mediatica, della notte in cui Giorgio Almirante si presentò a Botteghe Oscure, la storica sede del Pci dove era allestita la Camera ardente per il defunto Enrico Berlinguer e, nell’incredulità delle centinaia di militanti comunisti presenti, rese omaggio alla salma del nemico. Era il 13 giugno 1984. Il gesto non restò isolato. Quattro anni dopo (24 maggio 1988) ai funerali del “fascista” Giorgio Almirante si presentò il “comunista” Giancarlo Pajetta a rendergli omaggio. Azzardiamo un’ipotesi: se non ci fosse stato il crollo traumatico del comunismo alla fine degli anni Ottanta, che portò alla crisi del Pci, probabilmente quel lento processo di reciproco riconoscimento, avviato da due uomini politici di grandissimo valore quali Berlinguer e Almirante e che ebbe un’eco, il 10 maggio 1996, nel discorso d’insediamento di Luciano Violante alla presidenza della Camera dei deputati, avrebbe portato nel tempo a rimarginare le ferite lasciate aperte dalla Guerra civile combattuta in Italia tra il 1943 e il 1945.

La fine del Pci, negli anni successivi alla “caduta del muro di Berlino”, ha liberato gli “spiriti animali” del ribellismo contestatario dei decenni precedenti. Il Sessantottismo non era stato debellato dalle coscienze dei suoi protagonisti ma si era soltanto sopito. L’idea di abbattere la società tradizionale, e le sue sovrastrutture, non avrebbe ripreso quota fin quando il campo della sinistra fosse stato occupato dal pragmatismo meta-ideologico del Pci. Perciò, la resa dei conti tra compagni appartenuti allo stesso album di famiglia (la definizione è di Rossana Rossanda, citata in un corsivo su Il Mainifesto il 28 marzo 1978 a proposito degli autori del sequestro Moro) era solo rimandata. Con la “svolta della Bolognina” il 3 febbraio 1991, che sancì lo scioglimento del Pci e la sua sostituzione con il Partito Democratico della Sinistra (Pds), e con il “golpe bianco” di Tangentopoli, il mondo sommerso del Sessantottismo, popolato da una borghesia intellettuale progressista nel frattempo accasatasi ai “piani alti” della società, è riemerso occupando gli spazi lasciati vuoti dalla struttura partitica. Così i giovani contestatori di un tempo si sono ritrovati nei punti nevralgici del sistema: in magistratura, nelle università, nelle redazioni dei giornali, nelle istituzioni scientifiche e culturali del Paese. E financo negli assetti manageriali delle grandi imprese. Dalle posizioni occupate hanno potuto dare corpo alla loro infatuazione rivoluzionaria: abbattere il vecchio mondo e sostituirlo con un nuovo sistema sociale, rovesciato nei contenuti, nelle priorità politiche e nelle scale valoriali. A riprova, basterà verificare i curricula di tutti coloro che dal 1994 in poi si sono dedicati al “linciaggio” sistematico del nemico di turno, sospettato di spostare a destra l’asse egemonico del Paese. Si scoprirà che gli odierni datori di lezioni morali hanno una giovinezza trascorsa nelle sedi delle conventicole settarie della sinistra extraparlamentare. Quanti opinionisti, che oggi dalle colonne dei “giornaloni” vomitano fango e veleno su Giorgia Meloni e Matteo Salvini non meno di quanto ne sputassero ieri su Silvio Berlusconi, hanno fatto la gavetta a “Lotta Continua” e “Potere operaio”? Potranno mai essere costoro, cresciuti nel mito di Mao Zedong e nell’illusione dell’immanenza del Sol dell’Avvenire portato dal carro alato del terzomondismo, i protagonisti di una pacificazione con la parte liberale, conservatrice e tradizionalista della società? Certo che no.

Solo il tempo potrà sanare ciò che oggi resta insanabile. Bisognerà attendere che la generazione approdata al potere per effetto di accadimenti storici, indipendenti dalla sua capacità di determinarli, tramonti. Quando i contemporanei riusciranno a discutere di Resistenza e antifascismo con la medesima serenità di giudizio con la quale oggi gli storiografi valutano gli eventi che portarono, nel 1855, il Regno di Sardegna a partecipare alla Guerra di Crimea, la frattura che lacera il confronto politico potrà considerarsi superata. Fino ad allora ci sarà sempre un “loro” e un “noi”. Con buona pace di Matteo Salvini.

Aggiornato il 18 ottobre 2021 alle ore 09:14