La deriva antiscientifica produce le post-verità

C’è una “deriva antiscientifica che si registra un po’ ovunque anche nel nostro Paese… che porta a bloccare il futuro e riportare tutto al passato”. Pronunciando queste parole ieri all’Università di Pisa, il presidente Sergio Mattarella evidentemente non si riferiva solo ai “No vax” e ai “No pass”, ma a un fenomeno molto più vasto e profondo che si verifica da tempo in Italia.

Spesso in passato si sono accusati i filosofi del neo-idealismo italiano, in specie Benedetto Croce e Giovanni Gentile, di avere espresso posizioni anti-scientifiche. In proposito diremo soltanto che quelle accuse erano infondate e frutto di equivoci semantici tra i due filosofi da una parte e gli scienziati dall’altra, sul significato dell’espressione “conoscenza della realtà”. L’egemonia sulla cultura italiana dei due filosofi neo-idealisti (entrambi furono in epoche diverse ministri dell’Istruzione) non impedì che nella prima parte del secolo scorso ci fosse in Italia un formidabile sviluppo delle scienze e una proliferazione di scienziati, spesso di orientamento filosofico illuminista o positivista. Di essi Guglielmo Marconi è solo il più famoso esempio. Nacquero in quegli anni il Consiglio nazionale delle Ricerche, l’Istituto centrale di Statistica, l’Accademia d’Italia (che negli anni Trenta assorbì il patrimonio dell’Accademia dei Lincei); l’Istituto dell’Enciclopedia italiana, l’Istituto di Storia delle scienze; l’Istituto di Sanità pubblica, l’Istituto nazionale di Alta matematica e quello di Geofisica. In quegli anni all’Istituto di Fisica di via Panisperna a Roma cresceva e maturava un gruppo di fisici teorici e sperimentali guidato da Enrico Fermi che fece le prime esperienze al mondo sulla fissione nucleare.

Le vere tendenze antiscientifiche nell’intellighenzia italiana si diffusero nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale, quando molti intellettuali italiani sposarono quasi in massa il marxismo (e l’esistenzialismo francese di Jean-Paul Sartre) che, fondato su uno storicismo dialettico pseudo-scientifico, diffidava o disprezzava la “scienza borghese” come “storicamente e socialmente determinata”. Quelle tendenze si aggravarono negli anni ’60 e soprattutto a ridosso del 1968, quando molti intellettuali, scrittori, professori, giornalisti, caddero preda del delirio rivoluzionario comunista, il quale – ad occhi attenti come quelli di Croce – già appariva sconfitto filosoficamente e smentito dalla storia. Alcuni di loro sfilarono agitando il libretto rosso di Mao, qualcuno sostenendo che in Cina si riattaccavano le braccia agli operai grazie al pensiero maoista. Nelle aule universitarie si adottavano i testi dei filosofi della Scuola di Francoforte che rifiutavano radicalmente la scienza borghese. Quest’ultima in quanto si limiterebbe a descrivere, registrare e classificare i fenomeni e a servirsi di modelli meccanicistici, rivelerebbe un modo di vedere “a-dialettico” e quindi funzionale alla conservazione e allo sviluppo del sistema capitalistico.

Nel libro “Dialettica dell’Illuminismo” Max Horkheimer e Theodor Adorno spiegavano che la scienza con la sua “ragione calcolante” aveva creato la deprecabile società industriale che ha relegato nel mondo delle apparenze “tutto quello che non si risolveva in numeri” e aveva provocato “la distruzione degli Dei e delle qualità”. Anzi, sarebbe proprio la scienza ciò che aliena e disumanizza l’uomo” (sono evidenti le assonanze con il pensiero reazionario del filosofo tradizionalista francese René Guénon). In particolare, dai libri di Herbert Marcuse, idolo dei contestatori del ’68, si poteva leggere che la Ragione è la “tela di ragno” del dominio, e che la scienza non sarebbe che “strumento di falsa coscienza e di dominio”. Le cose non migliorarono negli anni successivi al 1968.

Erede di queste teorie sessantottesche fu lo sciagurato libretto collettaneo dal titolo “L’ape e l’architetto”, pubblicato da Feltrinelli nel 1976 a cura del noto fisico nucleare Marcello Cini. Quest’ultimo, nella sua Introduzione, spiegava come persino in fisica “nei suoi contenuti e nei suoi metodi, nella scelta dei problemi da risolvere e nella definizione delle priorità da rispettare, nella stessa formulazione delle sue ipotesi e nella costruzione dei suoi strumenti si potessero rintracciare le impronte dei rapporti sociali di produzione capitalistici” e della “logica irrazionale del capitalismo”. Occorreva denunciare, quindi, la “natura classista” della scienza, definita “scienza del padrone” e “pseudo-scienza”. Bisognava quindi lavorare per una palingenesi che riabilitasse la scienza e la rimettesse sui suoi piedi.

Fu in quel periodo che iniziò il lento declino della scienza italiana, sempre più isolata, senza spazi di autonomia e alle prese con un ceto politico privo di coscienza e soprattutto di interesse/i nello sviluppo della ricerca scientifica e tecnologica. Il Consiglio nazionale delle Ricerche fu usato in maniera sempre più clientelare, elargendo le sempre più povere borse di studio a un sempre più alto numero di ricercatori specialisti, soprattutto, in discipline umanistiche e in Scienze umane, sociologiche e politiche. Emblematica negli anni ’60 fu la pretestuosa vicenda politico-giudiziaria in cui fu coinvolto lo scienziato Felice Ippolito presidente del Cnen (Comitato nazionale per l’energia nucleare). Il programma nucleare italiano fu fortemente ridimensionato in favore – forse non a caso – della filiera petrolifera nazionale e mediorientale. Lo Stato investì sempre meno nei campi che avrebbero potuto promuovere la ricerca scientifica, tecnica e industriale. A loro volta le industrie private, che avrebbero potuto impegnare il loro capitale nell’innovazione tecnologica, posero fine a una stagione di investimenti coraggiosi. Dalla metà degli anni Sessanta e fino al recentissimo caso contrario di Giorgio Parisi tutti gli scienziati italiani premi Nobel sono stati ricercatori nati in Italia, ma professionalmente cresciuti all’estero. L’Italia è oggi agli ultimi posti nella ricerca scientifica e nei brevetti. Ancora oggi la Rai, che ha un canale dedicato alla Storia, non ha una rete dedicata alla Scienza (a parte Rai scuola). L’unico programma veramente scientifico è il periodico Superquark. Quello che è peggio è che negli ultimi tempi le ideologie antiscientifiche sono penetrate nel senso comune, con il relativismo assoluto delle ultime mode filosofiche postmoderne, creando un ambiente favorevole allo sviluppo del populismo e del politicamente corretto.

Ai giorni nostri quando si dicono sciocchezze antiscientifiche come “uno vale uno”, o “la terra è piatta”, o che “i vaccini provocano l’autismo”, o che “maschio e femmina sono costruzioni socio-culturali indipendenti dal sesso biologico”, o che “le sorti del mondo sono preordinate e determinate da un Grande Complotto Mondiale” si dicono dei tipi di menzogne che sono qualcosa di più di una semplice falsità. Sono delle “post-verità” eredità delle ideologie antiscientifiche coltivate per decenni nei nostri licei, università, libri e giornali. La “post-verità” differisce dalla semplice vecchia menzogna o dalla diceria popolare in quanto è reiterata e amplificata dalla potenza del web e risulta perciò impermeabile a ogni prova contraria. Anzi ogni argomento fattuale contrario non fa che amplificarla. Essa perciò, in pratica, risulta non falsificabile e non smentibile. La post-verità si afferma nell’ambito di un’opinione pubblica dove – per effetto del relativismo assoluto post-modernista diffuso da molti intellettuali e giornalisti – hanno trionfato da tempo le idee post-moderne. “La verità non esiste” e “la scienza è una funzione del potere e del dominio”, per cui bisogna diffidare degli scienziati in quanto corrotti dalle multinazionali e dai “poteri forti”. Queste pseudo-verità servono bene uno dei più antichi desideri umani: quello di avere sempre e comunque ragione anche contro l’evidenza fattuale e scientifica.

La caratteristica principale della post-verità è infatti quella di affermarsi in un ambiente culturale in cui la verità e la scienza vengono considerate una questione di importanza secondaria e di eguale valore a quello delle opinioni dell’uomo della strada e a quello delle dicerie popolari; è in quell’ambiente che la post-verità viene percepita e accettata come “vera” dal pubblico sulla base di emozioni, sensazioni e speranze che promettono solidarietà, eguaglianza, fine delle discriminazioni, progresso ed emancipazione. Il che corrisponde bene a uno dei più antichi errori umani: quello di unificare desideri e realtà.

La verità è nulla, l’emozione è tutto. Insomma: “Va dove ti porta il cuore”. È il cosiddetto “emotivismo” diffuso per decenni da cattedre universitarie, da libri di saggisti e filosofi post-moderni famosi (come Richard Rorty e Gianni Vattimo) e poi anche da pulpiti mediatici. È da quei pulpiti e da quelle cattedre che le post-verità si sono diffuse fino a diventare quasi senso comune. Che il relativismo assoluto dei postmoderni sia “l’antefatto ideologico” e il presupposto della post-verità lo sostiene tra gli altri un filosofo ex post-moderno come Maurizio Ferraris, secondo il quale la post-verità è persino “l’essenza” e “il sintomo dei caratteri fondamentali della nostra epoca” (vedi Maurizio Ferraris, “Postverità e altri enigmi”, Il Mulino, Bologna 2017, pagina 155).

La post-verità caratterizza non solo il populismo politico, basato in sostanza sulla credenza antiscientifica e irrazionalista che “il popolo” sarebbe “la fonte e la bocca della “verità” (e viceversa), come illustrato da Ferraris nel suo libro testé citato. La post-verità caratterizza anche e soprattutto quel fenomeno post-moderno che è la diffusione attraverso i media e il web dell’ideologia del politicamente corretto. In cosa, infatti, quest’ultimo consiste nella sua essenza se non nell’atteggiamento di chi pensa che, non essendoci alcuna verità e nessun grado di verità, “tanto vale” sostenere delle pseudo-verità edificanti che promettano di eliminare le discriminazioni e di promuovere la solidarietà e di emancipare l’umanità?

Quest’ultimo atteggiamento, detto emotivismo, è poi in sé una classica post-verità che ha solo l’apparenza della ragionevolezza perché è la più radicale negazione della ragione e della scienza e tende a fare ritornare l’umanità ad epoche premoderne, pre-scientifiche e pre-illuministe quando sul sapere profano prevaleva la potenza del sapere sacro, basato proprio su emozioni e su sentimenti etico-religiosi. È l’emotivismo la vera fonte degli atteggiamenti irrazionalisti e antiscientifici di oggi.

Aggiornato il 19 ottobre 2021 alle ore 15:59