Il relativismo assoluto, grave malattia culturale dell’Occidente

“Il relativismo è il problema più grande della nostra epoca e, in un certo qual modo, è diventato la vera e propria religione dell’uomo moderno”. Lo scrisse nel 2003 l’allora cardinale Joseph Ratzinger che successivamente parlò anche di una “dittatura del relativismo” (vedi “Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo”, Cantagalli, Siena 2003, pagina 75 e pagina 87).

Certo, Ratzinger è un uomo di Chiesa e le sue opinioni potrebbero essere sospette di mirare a una difesa dell’assolutismo della Verità rivelata, se non anche dell’assolutismo politico teocratico. E come tali furono accolte da molti. I laicisti insorsero, taluno facendo osservare, come fece Giulio Giorello, che “il contrario del relativismo è l’assolutismo”. Molti citarono Hans Kelsen, “il fondamento della democrazia è il relativismo”, intendendo il pluralismo politico. Ma è davvero così?

Che le cose non stiano esattamente così lo indica il fatto che proprio Sir Karl Popper, il teorico della società aperta, il padre moderno, laico e liberale del fallibilismo scientifico e del pluralismo liberale, affermò clamorosamente e paradossalmente che il relativismo è “la più grande malattia filosofica del nostro tempo”. Popper, nonostante il suo fallibilismo, negava l’asserzione fondamentale del relativismo che tra due teorie (o etiche o culture) non ci sia “alcun mezzo per decidere se una di esse è migliore di un’altra(vedi Karl Raimund Popper, “La società aperta e i suoi nemici”, Armando editore Roma, 1974). Il fatto singolare è che lo stesso Popper aveva in precedenza scritto: Tutta la nostra conoscenza rimane fallibile, congetturale… È ineluttabile che ogni asserzione della scienza rimanga necessariamente e per sempre allo stato di tentativo (ibidem).

Per questo suo fallibilismo Popper viene percepito generalmente come un pensatore “relativista”. È evidente che quando si parla di relativismo ci si riferisce a due posizioni nettamente distinte e che si faccia spesso confusione tra fallibilismo e pluralismo da una parte e relativismo (radicale) dall’altra. Esiste infatti, da un lato, un relativismo critico, anti-assolutista, pluralista, fallibilista e liberale che sostiene che pur non essendoci una verità assoluta e incontrovertibile, alcune affermazioni e teorie siano più vere (o più vicine alla verità) di altre a misura del metodo con cui siano state conseguite; e che alcune etiche e culture possano essere definite migliori e comunque preferibili ad altre, perché di queste più attraenti. Questo relativismo critico (e spesso anche autocritico) è una forza della civiltà occidentale che ha fatto del metodo critico-razionale e scientifico, del pluralismo dei valori e delle opinioni il fondamento del suo sistema giuridico-politico. Quest’ultimo ha fatto poi delle procedure e metodi democratici, liberali e garantisti il fondamento delle sue decisioni. È questo relativismo il fondamento della democrazia e il cui contrario è la società chiusa, tribale e assolutista e totalitaria.

Ma esiste anche nella cultura occidentale un relativismo radicale, che sostiene che non esisterebbe alcuna verità, etica o cultura che possa dirsi migliore di un’altra (o a questa preferibile) e che ha presupposti ed esiti nichilisti oltre che sbocchi politici assolutistici, populisti e totalitari. È questo relativismo radicale quello a cui si riferivano Ratzinger e Popper e che quest’ultimo definiva “la più grave malattia filosofica del nostro tempo”. Popper, infatti, non ha mai rinunciato all’oggettività del sapere scientifico, a differenza dai relativisti radicali che negano il concetto stesso di verità, di valore, di oggettività e persino di realtà e usano infatti mettere queste parole tra virgolette, come si trattasse di parole vietate. Il relativismo radicale è assolutista sia da un punto di vista cognitivo, sia politico. Cognitivamente perché si afferma come unica verità assoluta (“tutto è relativo, fuorché il relativismo”), politicamente perché è la premessa ideologica per fondare un pensiero unico totalitario e nichilista. Totalitario perché pretende di estendere la sua validità a tutte le attività umane teoriche e pratiche e di imporlo a tutti. Nichilista perché afferma che non esistono differenze di valore tra le verità, le etiche e le culture in competizione e che quindi che tutte avrebbero un eguale valore (il che equivale a dire che hanno tutte un valore nullo perché ha valore solo quel che vale di più). Esso nega infatti le nozioni stesse di verità e di valore.

Mentre il relativismo critico afferma che esistono vari gradi di verità, a seconda del metodo usato per acquisirla e dell’adeguamento o non adeguamento ai fatti, il relativismo radicale afferma che non esiste alcun tipo e grado di verità, né di adeguamento ai fatti, perché questi ultimi non esistono e quel che sembrano fatti sarebbero solo interpretazioni soggettive e arbitrarie. Ogni affermazione sarebbe equivalente a ogni altra per cui tutte avrebbero lo stesso grado di verità e di non verità in quanto tutte sarebbero meramente “convenzionali” e “risultato di un consenso” e di una “costruzione sociale”. Le conseguenze del relativismo radicale sono assurde, per non dire poco serie e talvolta comiche: nulla sarebbe più vero o più falso, ogni affermazione avrebbe lo stesso contenuto di verità del suo opposto o della sua negazione, con buona pace per i principi logici di identità e di non contraddizione. Una verità, anche scientifica, potrebbe avere per opposto un’altra verità; un risultato di una ricerca scientifica avrebbe lo stesso grado di verità/non verità di una credenza magica o una superstizione popolare. Le diagnosi di un medico e le ricette di uno sciamano o di un mago avrebbero un eguale valore terapeutico. Le affermazioni degli astronomi avrebbero lo stesso grado di verità di quelle degli astrologi, quelle dei chimici sarebbero non più veritiere di quelle degli alchimisti e quindi, quelle di un premio Nobel non sarebbero più credibili di quelle di un qualsiasi frequentatore di social network. Non è stato detto che “uno vale uno”?

Di conseguenza non esisterebbero più le menzogne, le balle, le bufale. Tutto vale uguale. Nascono da questa mentalità diffusa le cosiddette “post-verità”, affermazioni arbitrarie, ma popolari perché diffuse dai media e perciò praticamente inconfutabili. Le falsità, le dicerie, le leggende popolari o metropolitane diventano verità diffuse nel web e perciò indubitabili, solo perché alimentano in molti un timore, o un terrore o una speranza. Come a dire “molti lo scrivono sul web, dunque è vero”. Dal relativismo assoluto e dalla sua negazione della verità e del valore nascono le improbabili “post-verità” incontrovertibili per decreto e acclamazione “popolare” certificata dal web. Bel risultato.

È significativo però il fatto che molti intellettuali che si proclamano filosoficamente “relativisti”, quando si tratti delle loro verità, difendono a spada tratta i risultati delle loro ricerche: il fisico non rinuncia alla verità effettiva dei quanti (anche se la teoria dei quanti non possiede un vero fondamento teorico razionale: sembra sfidare la ragione, ma funziona e non si sa bene perché); il biologo non rinuncia alla verità dei geni, il sociologo non rinuncia alla verità delle sue ricerche, il giornalista difende la verità dei suoi reportage, per finire al filosofo nichilista che paradossalmente non rinuncia alla verità del suo relativismo che sarebbe, secondo lui, l’unica verità non relativizzabile e quindi (orrore!) assoluta e incontrovertibile.

Se poi tutto ha un eguale valore, nulla sarebbe più bene né male: tutto diventerebbe moralmente equivalente, la carità e la compassione sarebbero eticamente equivalenti al sadismo e alla violenza, l’amore e l’odio sarebbero equivalenti, l’etica cristiana sarebbe equivalente a quella tribale. Conclusioni evidentemente assurde e nichiliste, ma a cui i relativisti radicali giungono sul filo della logica a partire dall’inesistenza di un fondamento assoluto e inconcusso (che una volta era Dio, o comunque così veniva chiamato).

Ne deriva che molti giovani e no, influenzati dal relativismo radicale, molto diffuso tra professori, saggisti e giornalisti, danno per scontato che “non esiste la verità”, che “ogni verità, ogni etica, ogni cultura si equivale e una vale l’altra”, e “tutto vale uguale” ne traggono un forte disincentivo allo studio, alla ricerca ed al comportamento onesto e decente. Ne traggono anche la sensazione che “nulla ha senso” e che la stessa vita non ha significato. Molti non reggono a tale disorientamento e si comportano di conseguenza, rinunciando allo studio serio e al principio di verità e di realtà; cercano il piacere senza sforzo e senza rinvio dei paradisi artificiali. Molti finiscono col rinunciare alla vita stessa, come dimostra il tragico aumento di suicidi giovanili in Occidente.

C’è un’ultima (ma non meno importante) ragione per cui il relativismo radicale sia da considerare “una grave malattia” dell’Occidente. Il suo nocciolo etico, culturale e politico sta nel fatto che esso mira soprattutto a sostenere che non ci sarebbe alcun modo per definire la cultura e la civiltà occidentale, come migliore di alcuna altra, nonostante le sue grandi e uniche acquisizioni, i suoi grandi e unici meriti. E soprattutto nonostante la sua generale attrattività. Affermare che tutte le culture e le civiltà avrebbero, invece, un “eguale valore” è solo, per molti intellettuali relativisti, la premessa per poi passare a definire quella occidentale una civiltà “malata in maniera incurabile”, reproba, colpevole e anzi unica fonte del male radicale globale. I motivi e i pretesti non mancano: le colpe dell’Occidente nel passato più o meno recente sono tante. Ma per molti poco importa che quelle delle altre civiltà siano peggiori. Basta non saperlo. La conseguenza è di indebolire le difese dell’Occidente, diffondendo prima autocensura, auto-repressione, sfiducia e poi persino senso di colpa, vergogna di sé e ansia di espiazione e di riparazione.

Questi stati d’animo appaiono evidenti nel pensiero unico politicamente corretto che è anche un’arma culturale e propagandistica nella guerra che i “barbari interni” (in particolare certi “intellettuali”) dell’Occidente conducono contro la propria stessa civiltà e la propria casa natale. La conseguenza pratica è, infatti, che quando l’Occidente sia confrontato da una cultura che decisamente respinga i principi e le istituzioni occidentali, non sarebbe consentito nemmeno pensare che la cultura occidentale è preferibile a quella. Il passo successivo è che l’Occidente reprobo e colpevole sarebbe in debito etico verso tutte le altre civiltà, presunte innocenti e immuni dal male radicale globale che sarebbe intrinseco invece al solo Occidente. Il risultato è la resa culturale.

Il relativismo radicale appare, con il suo corollario del politicamente corretto, come una religione laica (anti-occidentale) del nostro tempo di cui sono “sacerdoti” molti intellettuali occidentali animati da quello che appare come un peculiare e patologico odio per la propria civiltà e la propria cultura, e che è quindi definibile – come ha fatto lo stesso Ratzinger – “un patologico odio di sé” dell’Occidente.

Aggiornato il 25 ottobre 2021 alle ore 09:17