Green pass e diritti perduti

Quando i diritti diventano concessioni, si ha ragione di chiamarli ancora diritti? Il cittadino italiano è il meno indicato, tra quelli dei Paesi occidentali, a rispondere a questa domanda. Non per colpa sua o per minore acume intellettuale, ma per il semplice fatto che è abituato a vivere nella commistione concettuale e pratica delle due categorie. È portato a confondere l’uno e l’altro status, perché la dominante cultura politica, di ispirazione idealistica, gli rappresenta la sua Facultas agendi non già come diritto originario, immediatamente fruibile, bensì, nella migliore delle ipotesi, come diritto derivato, subordinato sempre e comunque all’atto autorizzativo della Pubblica amministrazione. Se ne potrebbero fare mille esempi; ci limitiamo solo per ragioni di spazio. L’italiano fin dalla culla è abituato a vivere nel mondo dei “nulla osta”; gli è così familiare quella formula, che gli significa l’inesistenza di ostacoli all’esercizio del suo diritto, acclarata ufficialmente e certificata solennemente in un documento amministrativo inoppugnabile; ed è così contento di averlo tra le mani, da non chiedersi quale potesse essere l’ostacolo del quale l’agognato documento certifica l’inesistenza.

Secondo logica, la necessaria certificazione (dell’inesistenza dell’ostacolo) si giustifica solo nella supposizione che l’ostacolo esista e debba essere rimosso; e poiché l’atto autorizzativo si immedesima col documento certificativo, si deve concludere che l’ostacolo (necessariamente supposto) risieda in nient’altro, che nel procedimento amministrativo in sé e per sé. Dunque col “nulla osta” la Pubblica amministrazione dichiara ineffabilmente di ostacolare prima, e rimuovere successivamente, l’ostacolo da essa stessa posto all’esercizio del diritto del cittadino. In altri termini, “concede” il diritto alla stessa maniera di Ghino di Tacco, il quale dalla rocca di Radicofani rimuoveva l’ostacolo al passaggio dei viandanti.

Inoltre il cittadino italiano è indotto alla “confusione delle lingue”, quando è costretto ad avventurarsi nei labirinti della Pubblica amministrazione, perché intende edificare qualcosa sul terreno di sua proprietà. L’atto autorizzativo alla costruzione edilizia negli atri Paesi è chiamato tutt’al più “permesso” o “licenza”; in Italia e solo in Italia, è chiamato “concessione edilizia”. Poiché nessuno può concedere ciò che non gli appartiene, si deve supporre che lo Stato italiano “conceda” al cittadino ciò che è suo. Se la proprietà delle spiagge è demaniale e la concessione agli stabilimenti balneari autorizza uno speciale Ius excludendi sulla cosa demaniale; se l’etere appartiene a tutti noi e lo Stato concede l’uso di una determinata porzione della cosa di tutti, sotto le spoglie di concessione di frequenza; è evidente che la Res publica, nel “concedere” la facoltà di edificare, dichiara implicitamente come suo e dunque demaniale il bene “concesso”. Sicché, in ultima analisi, la parola e il concetto di “concessione edilizia” celano la grande “confusione delle lingue”, secondo la quale sulla cosa privata insiste ab origine un diritto pubblico, indipendentemente da un interesse (edilizio) pubblico.

Infine, il cittadino italiano ha il privilegio di vivere nella babele della legislazione più intricata e complicata del mondo, la quale si compone di un numero imprecisato e imprecisabile di atti legislativi, prossimo a circa 200mila.

Agli atti legislativi si devono aggiungere i regolamenti, i contratti collettivi di lavoro, i Dpcm (oggi “alla moda”) e perfino le circolari ministeriali, aventi efficacia normativa. In questo mare magnum, l’italiano è certo di trovare sempre e comunque una norma “scritta” che riguarda il caso concreto della sua vita, gli impone un particolare dovere o gli “concede” una determinata facoltà. Senza la norma “scritta” è smarrito, non sa che pesci prendere; non sa se il suo comportamento “non previsto” sia regolare o irregolare, legale o illegale, lecito o illecito. In linea di massima, opta per il nulla, preferisce astenersi, giacché tante volte il suo superiore o il gendarme gli hanno proibito qualcosa, per il semplice fatto che “non è scritto da nessuna parte”. Egli, in base alle sue consuetudini di vita, non è convinto che “tutto ciò che non è espressamente proibito è lecito”, bensì del suo contrario, che “tutto ciò che non è espressamente autorizzato è illecito”.

La commistione concettuale tra diritto e concessione, vigente in Italia, non rimane confinata nella sfera dell’intelletto, ma ha rilevanti conseguenze pratiche nella vita associata, in quanto genera una naturale acquiescenza all’invasività e allo strapotere dello Stato. Chi non ha compreso l’indole intrinsecamente autoritaria del “nulla osta”, o della “concessione edilizia”, o della proibizione derivante dal fatto che “non è scritto da nessuna parte”, è naturalmente portato ad accettare che il sindaco di Roma (all’epoca Raggi) rincorra i runners nei parchi, gridando loro che li “rinchiuderà”; non trova strano che gli sia imposto il numero massimo di commensali alla sua tavola; né che l’esercizio dei suoi diritti sia subordinato all’esibizione del green pass. Egli è già abituato, da lunga pezza, alla versione soft della way of life cinese; può abituarsi perciò, magari poco alla volta, alla versione hard.

Noi liberali abbiamo il dovere di ammonire gli italiani circa il fatto che ogni diritto concesso dismette la sua stessa natura di diritto. Quando l’esercizio concreto del diritto è subordinato, sempre e comunque, all’atto autorizzativo della Pubblica amministrazione, non ha più senso nemmeno la nozione di Stato di diritto. Questa si giustifica nei limiti in cui lo Stato riconosca la natura originaria dei diritti dei cittadini. Posto che ogni concessione implica inevitabilmente la possibilità della revoca, il diritto della persona è vero diritto, solo in quanto posto al riparo dall’ingerenza dello Stato che, come può concedere, così può revocare. Ebbene, il Green pass fa scempio del diritto, erode le fondamenta dello Stato di diritto, perché, le più elementari libertà possono essere esercitate solo mercé l’esibizione di un documento che attesta una “conformità”. Oggi è richiesta una conformità a protocolli sanitari, che poggiano su basi scientifiche molto incerte, e siamo ancora alla versione soft della via cinese; domani si potrà richiedere una conformità fiscale, magari la congruenza tra redditi e consumi, ma perfino la conformità ai comandi del “Politicamente corretto” e sarà così giunta a compimento la parabola diretta alla versione hard della Way of life cinese.

Se non si ferma subito lo scempio del green pass, l’Italia diverrà l’avamposto della Cina nel mondo occidentale e il virus cinese avrà fatto moti più danni alla nostra convivenza, di quanti non ne abbia fatto alla nostra salute fisica. Non mi piace fare da Cassandra, vorrei proprio sbagliarmi, ma non posso fare a meno di pensare che il green pass sia il “cavallo di Troia” per passare dalla cinesizzazione soft, già in atto, a quella hard, di là da venire, con la morte di tutti i diritti, snaturati e degradati in concessioni, in barba alla “costituzione più bella del mondo” e nel silenzio assordante dei suoi numerosi “custodi” e tutori.

Aggiornato il 26 gennaio 2022 alle ore 10:13