Trent’anni fa l’Italia entrò in un clima infame

lunedì 21 febbraio 2022


Nel 1992 iniziava l’inchiesta giudiziaria di Mani Pulite, ricordata anche come Tangentopoli, che diede un colpo mortale all’equilibrio partitico della cosiddetta Prima Repubblica. Questo è un trentennale che non ispira davvero alcun tipo di festeggiamento, ma induce soltanto a riflessioni amare. Come dice Bobo Craxi, non si può festeggiare l’anniversario di un colpo di Stato, perché tale fu di fatto, con un accanimento mirato esclusivamente ad affondare le forze governative dell’allora pentapartito, (Democrazia Cristiana, Partito Socialista italiano, e i raggruppamenti laici minori, Partito Liberale italiano, Partito Repubblicano italiano, Partito Socialista Democratico italiano). Mentre, chissà perché, la classe dirigente e la struttura dell’altro grande partito storico della Prima Repubblica, il Partito Comunista italiano riverniciatosi in Partito Democratico della Sinistra, riuscirono ad attraversare quasi indenni il ciclone di Tangentopoli.

Ci fu l’arresto di Primo Greganti, il Compagno G nonché cassiere del Pci-Pds, peraltro scaricato quasi subito da Achille Occhetto, all’epoca leader dei post-comunisti, ma Botteghe Oscure, a differenza di Piazza del Gesù e via del Corso, sedi storiche rispettivamente della Dc e del Psi, non fu costretta a chiudere i battenti. Anzi, gli eredi di Enrico Berlinguer hanno potuto determinare tutta la politica della sedicente Seconda Repubblica sino a giungere all’odierno Partito Democratico. Gli orfani della falce e del martello, approfittando dell’uscita di scena dell’ingombrante Bettino Craxi e della Democrazia Cristiana, avrebbero voluto dominare l’Italia in maniera ancora più totalizzante, ma un certo Silvio Berlusconi, con la sua discesa in campo e l’inaspettata vittoria elettorale, ruppe loro, in parte, le uova nel paniere. Tuttavia, i post-comunisti hanno potuto governare il Paese in più stagioni politiche, spesso senza nemmeno avere vinto le elezioni, e questa è Storia anche contemporanea, mentre Craxi è stato costretto a morire in terra straniera come un appestato. L’Unione Sovietica era collassata da poco tempo e dal Cremlino di allora, non più chiuso nei confronti dell’Occidente e non ancora caduto fra le grinfie di Vladimir Putin, non sarebbe stato difficile, per la magistratura italiana, ottenere delle prove circa i finanziamenti giunti al Pci dall’Urss durante la Guerra Fredda, ma si decise di stanare soltanto Craxi, Arnaldo Forlani e i loro alleati minori.

I democristiani nel loro complesso hanno pagato un prezzo alto per avere colpevolmente ceduto ai comunisti fette d’influenza e di potere consociativo, soprattutto nei campi della cultura e della giustizia, pur costringendoli a cinquant’anni di opposizione, talvolta più formale che sostanziale. All’inizio di Mani Pulite tanti italiani, probabilmente la maggioranza, facevano il tifo per l’ormai celebre pool di Milano, in particolare per il sanguigno pubblico ministero Antonio Di Pietro, confidando in un’azione sincera di pulizia del sistema politico. Ma a un certo punto si è iniziato a comprendere come l’improvviso attivismo di quei giudici della procura meneghina rispondesse perlopiù a una precisa volontà politica, a un disegno riempito con i colori della sinistra postcomunista. Le toghe rosse, ossia quei magistrati che antepongono la militanza a sinistra alla applicazione imparziale della legge, sono esistite ed esistono, e non hanno rappresentato soltanto il frutto di una certa propaganda berlusconiana. Molti esponenti della magistratura hanno fatto il balzo in politica e, come ricordiamo tutti assai bene, Di Pietro, dopo la stagione di Tangentopoli, si fece un partito tutto suo sino a diventare ministro.

Oltre alla politicizzazione delle procure e alla giustizia a orologeria, Mani Pulite diede avvio a quel “clima infame” denunciato da Bettino Craxi all’uscita dell’abitazione del deputato socialista Sergio Moroni, appena suicidatosi. Moroni, come Gabriele Cagliari, Raul Gardini e tanti altri più o meno noti, preferì la morte alla gogna mediatica e giudiziaria. L’avviso di garanzia, così, giunse ad equivalere alla condanna definitiva, alla colpevolezza accertata, al fango sparso su televisioni e giornali, (allora i social non esistevano ancora). E molti non ressero a quella situazione. Furono compiuti molti abusi, a cominciare dall’uso incontrollato della carcerazione preventiva, e da quel frangente storico diversi settori della magistratura si sono sentiti sempre più autorizzati ad entrare a gamba tesa nelle vicende politiche, spesso con inchieste farlocche, imbastite unicamente per mettere i bastoni fra le ruote a questo o quel leader di partito e conclusesi peraltro senza una condanna definitiva. Vista la popolarità acquisita da Di Pietro in quegli anni, è prevalsa successivamente la voglia di protagonismo anche in altri colleghi del Tonino nazionale come Luigi de Magistris, prestatosi anch’egli, si fa per dire, alla politica, Antonio Ingroia e Henry John Woodcock. Tangentopoli diede vita a tante di quelle degenerazioni sul fronte giudiziario da trasformare l’Italia in una anomalia nel consesso delle democrazie occidentali regolate da uno Stato di diritto.

Le conseguenze del modus operandi del pool di Mani Pulite le vediamo ancora oggi, nonostante siano trascorsi ben trent’anni dall’arresto di Mario Chiesa. Le toghe continuano a influenzare le dinamiche della politica e veniamo quindi alla Storia più recente del nostro Paese. Si è creato un cortocircuito nel quale non si capisce mai a fondo chi sia la vittima e chi il carnefice, ovvero, se il politico di turno indagato meriti davvero l’attenzione della giustizia perché colpevole di un reato, oppure se siano gli inquirenti a trovarsi in una condizione di malafede in quanto spinti da interessi di parte più che dal desiderio di far osservare la legge anche ai potenti. Nel suo ventennio di leader di partito, di capo di una coalizione, di presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi ha speso più della metà del suo tempo a fronteggiare delle inchieste giudiziarie, che, se Sua Emittenza fosse rimasto a occuparsi di televisione e di calcio, non avrebbero probabilmente mai visto la luce. Per tentare di ridimensionare Matteo Salvini, (il Salvini di qualche anno fa, titolare del Viminale e non ancora addomesticato), si è provveduto a processare le sue scelte, meramente politiche e senza alcun rilievo penale, in qualità di ministro dell’Interno. Le rogne giudiziarie non mancano neppure a Matteo Renzi, e la leadership del Movimento Cinque Stelle è divenuta oggetto di interesse per il Tribunale di Napoli. Il movimento fondato da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio costituisce senz’altro una sorta di riedizione 2.0 della stagione forcaiola di Mani Pulite. Ed evidentemente chi di giustizialismo ferisce, di giustizialismo perisce.

Ma, per quanto odiosi possano essere i grillini e per quanto poco simpatico sia Giuseppe Conte, non è bello che siano dei magistrati a decidere il futuro del M5S. Dopo un trentennio sono rimaste solo le storture di quel sinistro tintinnio di manette e i benefici sono stati e sono pari allo zero. Si dice che dopo Tangentopoli si sia continuato a rubare come prima. Tale affermazione è inesatta, perché semmai si è rubato peggio di prima. I partiti storici, e ciò non è mai stato negato da nessuno, nemmeno da Craxi, si avvalevano di finanziamenti illeciti per tenere in piedi le loro attività quotidiane, (campagne elettorali, congressi, sedi, giornali di partito), ma quei denari giungevano in una cassa comune e non andavano a rimpinguare le tasche dei singoli leader e dirigenti. Dopo, vi sono state ruberie, se così si può dire, molto più straccione, a opera di singoli personaggi magari intenzionati ad arrotondare per piaceri del tutto personali. Nel frattempo, è divenuto di dominio pubblico anche il marcio che si annida presso la casta della magistratura italiana, grazie alla vicenda di Luca Palamara e all’inchiesta sulla cosiddetta Loggia Ungheria. Piercamillo Davigo, collega di Di Pietro nel pool di Milano, esattamente trent’anni dopo l’inizio di Mani Pulite, viene rinviato a giudizio per la Loggia Ungheria. Bettino Craxi, sempre lui, diceva: finirà che i magistrati si processeranno tra di loro.


di Roberto Penna