Giù le mani dall’insalata russa

Giochiamo a “chi scopre la differenza?”. Anno 1931. Con un Regio decreto (n.1227), il Governo Mussolini inserisce la cosiddetta clausola di fedeltà al fascismo nel giuramento dei docenti di ruolo e degli incaricati nei Regi istituti d’istruzione superiore. L’incipit modificato del testo del giuramento recita: “Giuro di essere fedele al Re, ai suoi Reali successori e al Regime Fascista”. La sanzione per chi si fosse rifiutato di pronunciare la nuova formula del giuramento sarebbe stata la perdita della cattedra e dei connessi diritti alla liquidazione e alla pensione. Anno 2022. Valery Gherghiev, uno dei più grandi direttori d’orchestra al mondo, russo e amico di Vladimir Putin, avrebbe dovuto dirigere alla Scala di Milano La dama di picche, opera in tre atti e sette scene composta da Pëtr Il’ič Čajkovskij con libretto di Modest Il’ič Čajkovskij, fratello minore del compositore, ispirata a un racconto di Aleksandr Puškin, del 1834. Ma Valery Gherghiev non ci sarà perché, nel frattempo, è stato rimosso dall’incarico su esplicita richiesta del sindaco (progressista) di Milano, Beppe Sala. La motivazione del “licenziamento”? Richiesto di condannare l’invasione russa dell’Ucraina, Valery Gherghiev sarebbe rimasto in silenzio. Qual è la differenza tra i due episodi citati? La risposta esatta la troverete in calce. Oggi che il nemico pubblico numero uno dell’Occidente si chiama Vladimir Putin e sta a Mosca, la marea del politicamente corretto è tornata a montare. Le “camicie nere” della democrazia hanno avviato il repulisti: manca solo l’olio di ricino. Si voleva un’abiura da Gherghiev, come ai tempi di Giordano Bruno.

E il libero pensiero? Che vada a ramengo. Come da tempo capita alla secolare tradizione occidentale propugnatrice della tolleranza – da Montaigne a Pierre Bayle, da Baruch Spinoza a John Locke, a John Stuart Mill – per la quale “le opinioni non sono azioni”. Coloro che oggi marcano un dissenso rispetto alle scelte politiche e strategiche adottate dai Paesi del blocco occidentale nella gestione della crisi russo-ucraina sono accusati di intelligenza col nemico. Come se non bastasse, è cominciata una sorta di damnatio memoriae per tutto ciò che evochi in qualche modo la Madre Russia. Anche nelle sue espressioni più nobili. Persino l’incolpevole Fëdor Dostoevskij c’è andato di mezzo. La vicenda, che sarebbe tragica se non fosse comica, nella quale è stato tirato in ballo il nome del gigante della letteratura di tutti i tempi l’ha raccontata bene sul nostro giornale Aldo Rocco Vitale. Il dramma autentico è che vi sono in circolazione troppi fanatici da bar dello sport destinati a infoltire le schiere dell’esercito di riserva del “politicamente corretto”. Un potere alla luce del sole costruito su una menzogna: dirsi tolleranti quando si è congenitamente intolleranti. La vicenda della crisi ucraino-russa, in ordine cronologico, è solo l’ultima manifestazione di una contraddizione in termini. La storia repubblicana, in particolare degli ultimi decenni, è costellata di episodi nei quali la natura autoritaria dei finti liberali si è palesata in tutta la sua virulenza. Il pericolo dell’inverarsi della profezia vaticinata da Ray Bradbury nel suo Fahrenheit 451 è incessantemente dietro l’angolo, pronta a rispuntare alla prima occasione. Se si comincia a censurare l’arte, la letteratura, il pensiero critico, bisognerà andare a nascondersi nei boschi a imparare a memoria le opere del passato che il regime del “Bene” vorrebbe cancellare, per tramandarle agli uomini liberi delle future generazioni.

Già il verbo “cancellare” affiancato alla parola “conoscenza” stride; peggio, l’espressione oggi molto in voga tra i progressisti Cancel culture invece genera un mostro: un nazismo senza Adolf Hitler. Quelli che si auto-elogiano definendosi “costruttori di ponti” nella realtà sono l’esatto contrario: distruttori di ponti con la storia. A sentire i benpensanti che ce l’hanno con Vladimir Putin dovremmo azzerare gli effetti che la vasta tradizione letteraria russa ha prodotto in noi occidentali. E anche la musica dei grandi compositori russi dovrebbe subire la medesima sorte. Se una tale follia prendesse piede nello svolgersi della vita sociale, questo non sarebbe più il nostro mondo ma quello di Matrix. Se l’odierno Occidente, traviato dall’ideologia progressista, non sa offrire niente di meglio che un puteolente impasto di moralismo bigotto e di stupidità tracotante, mille volte preferibile sarebbe tornare agli antichi lidi dove libertà, buonsenso e ragionevolezza avevano diritto di cittadinanza. Nessuno, a eccezione degli Stati d’Israele (per comprensibilissime ragioni) e della Romania, osò mettere al bando la musica di Richard Wagner, tacciata a sproposito di essere servita da colonna sonora alle armate del Terzo Reich, e neppure immaginò di zittire grandi direttori d’orchestra quali furono Herbert von Karajan e Wilhelm Furtwängler (quest’ultimo a nostro avviso il più convincente interprete del repertorio wagneriano) che pure si esibirono alla presenza del Führer. Cosa sarebbe stato l’Occidente se, le potenze alleate, nel 1945, avessero decretato il divieto d’insegnamento nei conservatori di tutto il mondo della sublime musica di Ludwig van Beethoven, tedesco della Renania? L’inno alla gioia, nella partitura dell’immortale Nona, non sarebbe mai divenuto l’inno dell’Unione europea. Oggi, se tutto ciò che richiama all’immaginario collettivo la patria di Čajkovskij e Dostoevskij diviene oggetto di censura, ci toccherà persino imparare a memoria la ricetta dell’insalata russa, visto che a una tale prelibatezza, Putin o non Putin, non rinunciamo.

Il regime del pensiero unico politicamente corretto di questo Occidente raffazzonato ha impiegato poco a imporre i suoi diktat. E, come sempre, i politici italiani sono stati i più zelanti nell’ubbidire agli ordini impartiti dal centro di comando eurocratico. Evidentemente la pratica repressiva, esercitata mediante le limitazioni alla libertà individuali legittimate dallo stato d’eccezione nel periodo della pandemia, è servita. Oggi è più facile colpire il dissenso in nome del pensiero unico politicamente corretto. Nondimeno, in barba alle intimidazioni, agli anatemi lanciati dagli utili idioti del potere e alle messe all’indice da parte degli allineati al politicamente corretto, continueremo a esercitare un pensiero critico divergente, eterodosso, se necessario eretico, rispetto alle scelte assunte dai Paesi del blocco occidentale riguardo alla postura e alle misure da assumere nei confronti della leadership russa. Non è il pacifismo sulfureo della sinistra radicale veteromarxista ad averci contagiato. Purtroppo, sono i fatti che si sono incaricati di darci ragione. Non c’è gloria nel dire: l’avevamo detto. Eppure, è così che è andata. Tentare la prova muscolare con la Russia putiniana, senza avere la forza di portarla fino alle estreme conseguenze, si sta rivelando un suicidio per l’Occidente e una rovina per l’Ucraina.

L’armata di Mosca avanza facendo terra bruciata al suo passaggio. Vladimir Putin l’ha detto senza mezzi termini: si fermerà solo quando avrà conquistato tutto il territorio ucraino. A quel punto imporrà le sue condizioni di pace. Niente ci distoglie dalla convinzione che una forte azione diplomatica con il Cremlino, leale, a viso aperto, pronta ad accogliere le ragioni dell’interlocutore, condotta e conclusa prima che si scatenasse l’inferno, avrebbe fermato il treno della guerra. Se a dirlo si passa per disfattisti e nemici della patria, è semplicemente ignobile. Vile. E coloro che a chiacchiere dicono di voler difendere l’altrui libertà di pensiero e d’espressione negandola a chi gli è vicino sono soltanto degli ipocriti che nascondono la camicia nera sotto un elegante blazer. La soluzione del gioco “scopri la differenza” è: nessuna differenza.

Aggiornato il 06 marzo 2022 alle ore 10:05