La battaglia del grano

venerdì 13 maggio 2022


Come volevasi dimostrare. La politica è sempre più luogo d’elezione di autoreferenziali vaniloqui, mentre la realtà resta fuori dalla porta: granitica, cruda, inscalfibile. La prova? Per settimane si è enfatizzata la compattezza dell’Unione europea nell’opporre un secco rifiuto alla pretesa di Mosca di farsi pagare in rubli il gas venduto ai Paesi a lei ostili nella crisi con l’Ucraina. Ma si trattava di ritinteggiatura della facciata delle buone intenzioni: dietro l’estetica istituzionale, niente. Ne abbiamo sentiti di politicanti giurare sulla testa dei propri leader che mai e poi mai avrebbero ceduto al diktat russo. Chiacchiere, chiacchiere e poi ancora chiacchiere.

Alla fine della fiera, quando si è giunti al redde rationem e al Governo italiano è toccato decidere se tenere il punto e fare a meno del gas russo o cedere alla pretesa del fornitore, il presidente Mario Draghi, nella solenne cornice dell’ambasciata d’Italia negli Stati Uniti, ha affermato testualmente: “Nessuno ha mai detto se i pagamenti in rubli violano le sanzioni, è una zona grigia”. Contrordine compagni! Si paga anche noi in rubli e buonanotte al secchio! Si vede che Draghi è d’animo mozartiano perché, a proposito del comportamento dei partner europei, deve essersi ricordato del titolo di una celebre opera lirica del grande compositore di Salisburgo, “Così fan tutte”, visto che ha tenuto a precisare che “il più grande importatore di gas in Germania ha già pagato in rubli e la maggior parte degli importatori ha aperto i conti in rubli”.

Dopo mesi di ubriacatura massimalista, bentornata realpolitik. Otto von Bismarck, nostro ispiratore e idolo, ne sarebbe deliziato. Il pragmatismo che fa capolino nelle decisioni governative è buon segno. E noi lo accogliamo con fiducia, purché non resti caso isolato. Aderendo alla richiesta di Mosca è stato scongiurato il rischio d’implosione del nostro sistema economico per mancanza di materia prima energetica. Il fatto poi che dal Governo dicano di lavorare a fonti di approvvigionamento alternative è soltanto fumo negli occhi per tenere buona l’opinione pubblica, ma la verità è che noi abbiamo bisogno di continuare a ricevere il gas russo, senza se e senza ma. Accantonata la pratica delle forniture energetiche, per gli interessi italiani resta aperta la voragine della crisi del grano, grave quanto quella del gas. Parliamo di effetti indiretti atteso che, nel 2021 in Italia, l’autoapprovvigionamento del frumento duro abbia coperto il 65 per cento del fabbisogno; quello del frumento tenero il 38 per cento; quello del mais il 54 per cento; quello dell’orzo il 64 per cento (Fonte: Ismea).

L’Ucraina è primatista mondiale nella produzione dei cereali. Negli ultimi dieci anni il volume dei cereali esportati da Kiev ha coperto il 12 per cento del mercato mondiale del grano, il 16 per cento del mais, il 18 per cento dell’orzo, il 20 per cento della colza e il 50 per cento dell’olio di girasole. L’invasione russa del Sud dell’Ucraina ha, però, bloccato il flusso dell’esportazione di questi prodotti. Il rappresentante del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite, Martin Frick, sostiene che vi siano 4,5 milioni di tonnellate di cereali stivati nei silos dei porti ucraini ma il blocco navale impedisce ai mercantili di salpare dai pontili di carico e di prendere il mare. Il grano ucraino finora ha soddisfatto la domanda alimentare principalmente dei Paesi dell’Africa e del Medio Oriente. La crisi generata dall’aumento straordinario dei prezzi dei cereali, a causa della contrazione dell’offerta, è destinata a ripercuotersi sulle economie del Terzo mondo con effetti devastanti.

Molti Stati africani, privi di risorse naturali in quantità tali da compensare l’aumento dei costi d’approvvigionamento della materia prima alimentare, dovranno fare i conti con la carestia. E la fame, dalla notte dei tempi, è il più efficace veicolo di diffusione del virus della ribellione violenta delle masse. Ma è anche il vettore di un’altra patologia che riguarda l’Italia da vicino: l’onda di milioni d’individui che, costretti dalla fame, migrano in cerca di territori ospitali in cui mettere radici. Ora, geolocalizzando l’epicentro della crisi alimentare nelle aree del Nord Africa (Egitto) e della fascia sub-sahariana, quale pensate sia il primo approdo dell’onda migratoria in movimento da Sud verso Nord? Non la Finlandia. Libia, barconi, Lampedusa, morti che galleggiano nelle acque del Canale di Sicilia, navi delle Ong che offrono agli immigrati clandestini il traghettamento dalla sponda libica a quella italiana del Mediterraneo meridionale? Non sembra un déjà vu? Ma con una differenza esiziale per il nostro sistema economico-sociale, scandita dagli zeri da aggiungere alla contabilità degli sbarchi. Se finora ce la siamo cavata restando all’interno delle decine di migliaia di migranti economici giunti annualmente nel nostro Paese, quando la crisi alimentare esploderà saranno in milioni a volere entrare in Italia.

Se pensate che ci sarà l’Europa a darci una mano, siete degli illusi. Bruxelles non farà nulla, se non allungarci qualche spicciolo per fingere di partecipare alle spese dell’accoglienza. Gli altri, i Governi dei Paesi partner, ripeteranno ciò che hanno sempre detto: sono cavoli vostri. E questa volta non basteranno un Matteo Salvini o una Giorgia Meloni che fanno la voce grossa, perché i multiculturalisti, nemici giurati dell’idea di Patria, ringalluzziti risponderanno trascinando il Papa nell’annosa disputa sul dovere morale di accogliere chi fugge dalla guerra ma anche dalla fame. Mai come adesso occorre prevenire il fenomeno prima che esso dispieghi i suoi effetti letali. Che non vuol dire allestire più centri d’accoglienza nel Mezzogiorno ma andare a monte del problema, cioè all’interruzione della crisi russo-ucraina. Che poi, stando alle dichiarazioni prive di senso dei maggiori leader europei, è l’unica cosa che in Occidente non si vuole fare. Se un Emmanuel Macron dice che non bisogna umiliare Vladimir Putin ma spingerlo a un negoziato che parta dalla premessa irrinunciabile dell’integrità territoriale ucraina (Crimea compresa), delle due l’una: o non si è capito nulla della realtà o si continua a ciurlare nel manico.

Stesso dicasi per Mario Draghi. Che vuol dire iniziativa di pace per una soluzione che piaccia all’Ucraina? Aria fritta. Il dato di realtà indica tutta la fascia meridionale dell’Ucraina sul Mar Nero e sul Mar d’Azov caduta o prossima alla capitolazione. Il punto è: attendere che Mosca completi l’opera giungendo a occupare l’intero territorio da Mariupol al delta del Danubio, nell’Oblast di Odessa, di modo da precludere l’accesso al mare a ciò che resterebbe dell’Ucraina, oppure impegnarsi ad horas con Vladimir Putin in un negoziato per un cessate-il-fuoco che cristallizzi la situazione come si è determinata sul campo e lasciando a Kiev l’agibilità della portualità nella zona Sud-occidentale non ancora caduta in mano russa?

Lo sblocco dell’impasse negoziale ristabilirebbe il traffico navale e con esso verrebbe scongiurata la crisi alimentare, ormai alle porte del Continente africano. Tutto ciò che si distacchi dalla constatazione della realtà è chiacchiera, fumo, ciacola, retorica propagandistica e sintomo di sostanziale incapacità al dialogo. Quando i leader europei cominceranno a fare sul serio, non potremo che esserne compiaciuti e dirci soddisfatti per lo scampato pericolo. Fino ad allora, per tutti loro, non potranno che esserci dei sonori e convinti vaffa!


di Cristofaro Sola