Il Pd è morto, Dio salvi il Pd!

martedì 27 settembre 2022


“Ahimè, non ho mai visto un uomo capace di vedere i propri errori e di denunciarli al tribunale del suo cuore”: così Confucio descriveva l’arroganza di quegli spiriti umani che non riescono mai a indagare con razionalità e serenità sui propri passi falsi, spesso neanche ammettendone l’esistenza dinnanzi alla propria stessa coscienza.

In quest’ottica si inserisce perfettamente il Partito Democratico che, nonostante sia il protagonista della gestione pandemica degli ultimi tre anni (o forse proprio per questo), nonostante sia l’azionista di maggioranza della gestione del Pnrr (o forse proprio per questo), nonostante sia il protagonista principale dell’interventismo bellico italiano nella guerra ucraina (o forse proprio per questo), nonostante sia il referente principale della politica energetica italiana degli ultimi decenni (o forse proprio per questo) è e rimane, senza ombra di dubbio, l’unico vero grande sconfitto delle elezioni politiche del 2022.

Al di fuori di ogni ingenuità, però, come al di fuori di ogni spiegazione auto-assolutoria e cervellotica sulla migrazione dei flussi elettorali che potrebbe provenire dai vertici del medesimo Pd o dagli analisti ad esso contigui, occorre interrogarsi e comprendere le cause prime e profonde di una così pesante sconfitta di quello che dovrebbe essere (il condizionale è d’obbligo per le ragioni che seguiranno) il partito di punta del progressismo italiano.

In primo luogo: il progressismo italiano negli ultimi due decenni ha intrapreso un percorso singolare, mettendo in scena nel modo più puntuale possibile quella lungimirante profezia di Augusto Del Noce degli anni ’80 secondo cui la sinistra italiana, perduta la sua identità socialista, si sarebbe trasformata in un grande partito radicale di massa. In questo senso, la predilezione quasi paranoide dei vertici del Pd e dell’intellighenzia ad esso sodale per i cosiddetti “nuovi diritti” o per i “diritti civili” ha finito per sacrificare del tutto la difesa dei cosiddetti classici “diritti sociali” e degli ancor più rilevanti “diritti umani fondamentali”. Il Pd, infatti, da anni, oramai insegue le fantasie politico-sessuali delle rumorose e ben organizzate minoranze Lgbt che non soltanto intendono politicizzare la sessualità e sessualizzare la politica, ma soprattutto intendono demolire secoli di stratificazione giuridica intorno all’istituto della famiglia, persegue le logiche tanatofore ed eugenetiche dei Radicali italiani sulla morte assistita e sulla legalizzazione delle sostanze stupefacenti secondo paradigmi del tutto individualistici dimentichi e opposti a quelli collettivistici di un tempo, insiste in modo autoreferenziale sulle politiche ambientali e climatiche assurte ad una vera e propria forma di nuova escatologia civile e sociale, che ha preso il posto di quella di un tempo basata sulla redenzione delle masse proletarie oppresse, avendo del tutto tralasciato, tuttavia, le concrete politiche famigliari, quelle sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, quelle afferenti all’economia reale, quelle di tutela e sostegno delle classi meno abbienti e dei lavoratori disagiati, quelle che riguardano la sanità pubblica e le pensioni. Ecco perché, per esempio, il taglio maggiore di posti letto nelle strutture ospedaliere (cioè, meno 25mila già in epoca pre-Covid) negli ultimi dieci anni è avvenuto proprio sotto la direzione di governi direttamente o indirettamente sostenuti dal Pd. Ed ecco perché, sempre per esempio, il Pd è diventato espressione di rappresentanza non più del ceto popolare e delle periferie cittadine, ma del ceto medio-alto assurgendo a cosiddetto partito delle “Ztl”.

In secondo luogo: dal punto di vista metodologico, la retorica dell’antifascismo di cui il Pd si munisce ad ogni tornata elettorale non pare più in grado di svolgere il suo compito dissuasivo nei confronti dell’elettorato indeciso il quale non sa se votare o meno le forze diverse dal Pd, e ciò per varie ragioni:

a) che ci sia un pericolo di restaurazione del fascismo è argomento elettoralmente seducente e mediaticamente potente, ma del tutto oramai anti-storico a più di cento anni dalla nascita del fascismo e a quasi 80 anni dalla sua fine, poiché non ci sono più i contesti e i presupposti sociali, culturali e ideologici che hanno costituito il terreno su cui il fascismo si è potuto radicare e sviluppare nel XX secolo;

b) nonostante la martellante campagna culturale, che prende le mosse già dai primi anni scolastici con un massiccio arruolamento della classe docente a tal fine coinvolta, sui pericoli del fascismo, le nuove generazioni sono oramai troppo temporalmente e mentalmente lontane per percepire questi pericoli come reali e attuali, come, del resto, non lo sono più quelli che riguardano l’eventualità che nuovamente e ancora un altro piccolo uomo corso su un cavallo bianco ridiventi imperatore di Francia e vada alla conquista belligerante dell’Europa intera;

c) è oramai evidente per la maggior parte dell’opinione pubblica – almeno di quella non ideologicamente irregimentata che, cioè, costituisce il cosiddetto elettorato d’opinione di cui è composta la grande massa degli elettori moderati e dei cosiddetti flussi migratori di voti – che l’accusa di fascismo brandita dal Pd contro i propri competitori è soltanto un pretesto utilizzato per screditare l’avversario politico, più che una verosimile denuncia di una sua reale militanza fascista. Queste strategie comunicative adottate puntualmente dal Pd, dunque, si risolvono in un micidiale effetto boomerang che rivelano all’opinione pubblica la pochezza dei contenuti dei retori del Pd medesimo e la loro imbarazzante portata demagogica tesa più ad insultare l’avversario elettorale che a rivelare il proprio programma politico con l’intenzione di migliorare concretamente il Paese.

In terzo luogo: una ulteriore criticità del Pd è costituita dal fatto di essersi reso, soprattutto nell’arco dell’ultimo decennio, la cinghia di trasmissione di quell’ingranaggio composto dalla triade Bce-Anm-Quirinale che ha spesso sostituito Governi democraticamente legittimati con Governi tecnici imposti all’Italia non soltanto in spregio alla volontà popolare, ma spesso anche alle più elementari logiche dello Stato di diritto fondato sulla separazione dei poteri. È fuor di dubbio che del Pd, in quanto evoluzione del Partito Comunista italiano, sia parte integrante una prospettiva qualificabile come “internazionalistica”, ma questa ancestrale predisposizione si è con il tempo trasformata in una forma di anti-sovranismo che per un verso, dietro la mistica del comunitarismo europeistico, tende a limitare la sovranità del popolo e delle istituzionali nazionali italiane e per altro verso tende a trasferire la suddetta sovranità riconoscendola esclusivamente in capo alle istituzioni della comunità europea le quali – almeno per il momento – sono e rimangono grandemente deficitarie del titolo rappresentativo adeguato e sufficiente per essere riconosciute come compiutamente democratiche.

Con il tempo, il predetto euro-sovranismo predicato dal Pd ha finito per erodere sempre più gli spazi di manovra economico-fiscale delle istituzioni rappresentative italiane, dettaglio di certo non sfuggito ad una opinione pubblica che nel corso degli anni ha visto incrementare la perdita del proprio potere d’acquisto, la relativizzazione delle decisioni dei propri consulti elettorali, il costo dell’energia e delle materie prime, nonché l’imposizione di bislacchi limiti e farraginosi meccanismi burocratici calati dall’alto dai mandanti di Bruxelles di cui il Pd è divenuto volontario e solerte esecutore e mandatario.

Dinnanzi, a questo scenario sostanzialmente così articolato, il Pd, che ha tradito le origini sociali e socialiste di quel progressismo a cui tuttavia nominalmente si richiama e si appella, ha sostanzialmente perduto la sua identità e la sua progettualità politica costitutiva, inseguendo le ideologie sessuali più alla moda o eseguendo gli ordini di burocrati sovranazionali che agiscono come longa manus di ben più potenti e meno trasparenti interessi economico-finanziari internazionali.

Da questo momento in poi il Pd si ritrova davanti ad un bivio: o abbandonare la strada intrapresa, riscoprendo le proprie origini sociali, de-ideologizzando la propria base e la propria classe dirigente, autonomizzandosi peraltro da certi centri di interesse burocratico-finanziario, e rivalutando positivamente l’importanza della volontà popolare, oppure accettare di essere destinato ad una sempre crescente marginalizzazione non soltanto politico-parlamentare ma, cosa ben più grave, arrendersi a veder grandemente ridotto perfino quello spirito democratico di cui si professa pubblicamente foriero e vessillifero e che dovrebbe contraddistinguerlo non soltanto nella ragione sociale, ma anche e soprattutto nell’azione sociale, rischiando di divenire in sostanza lo spettro di se stesso.

Fino a quel momento non resta che proclamare un british self-control: Pd is dead! God save the Pd!


di Aldo Rocco Vitale