Bruxelles, il funerale dell’integrazione

martedì 29 novembre 2022


A Bruxelles, domenica, si è celebrato l’ennesimo funerale dell’integrazione interculturale. Che questa amalgama multiculturale avesse basi opache e fosse complessa – non in senso generale, ma solo dove incombe una coatta “coabitazione interreligiosa” – è cosa abbastanza nota, ma forse troppo sottovalutata. Le dinamiche migratorie presentano aspetti controversi, come scritto in molte occasioni, ma è indubbio che non tutti i migranti abbiano le stesse caratteristiche di integrabilità. Per esempio, quando il migrante – anche musulmano – ha una percezione della propria fede tendenzialmente “laica”, questo processo d’integrazione non presenta particolari complessità.

Brevemente, riguardo ai migranti, non solo quelli europei dell’Est, appartenenti alle confessioni legate al Cristianesimo, le problematiche d’integrazione sono perlopiù assenti. Anzi, spesso le ritualità religiose sono rispettosamente e distintamente leganti, come con le religioni/filosofie estremorientali – asiatiche – dove vige la regola sacra del rispetto e della riservatezza. Altra questione si avverte quando è il radicalismo religioso ad accomunare, anche sotto la bandiera di una fisiologicamente e non integrante sfida calcistica, la propria visione della fede. Chi ha vissuto anche per brevi periodi nella capitale belga, sa che la presenza di una forte comunità islamica caratterizza, pesantemente, la vita sociale: fette del “mercato lavorativo” sono occupate da immigrati – cittadini belgi arabo-africani – e alcuni quartieri della capitale hanno i loro perimetri tratteggiati, come nei Paesi scandinavi, per peculiarità etniche e religiose.

Come sappiamo, la regione di Bruxelles-Capitale è una delle principali porte d’ingresso per la migrazione internazionale. Al pari del resto d’Europa, il problema è il dopo, cioè l’integrazione dei nuovi immigrati nel contesto sociale ospitante, decisamente sentito in Belgio. Nello Stato federale belga sono state attuate diverse politiche di integrazione, messe sotto stress dall’impegnativo compito di procedere a una “formazione” pro-integrazione. In particolare a Bruxelles, dove l’impegno è particolarmente gravoso. Vi sono, infatti, diverse istituzioni competenti, spesso concorrenti. Oggi, poi, sono presenti sullo stesso territorio due corsi di integrazione civica: uno in lingua neerlandese e uno in lingua francese.

Una legislazione integrativa, lunga e travagliata, soprattutto semi-fallimentare. Il processo d’accoglienza accompagna gli immigrati, con un’età compresa tra i diciotto e i sessantacinque anni, per diciotto mesi. Prima sono registrati, a seguire viene dato loro un quadro dell’organizzazione sociale. In seguito, sono indirizzati verso un percorso istruttivo della lingua e, in molti casi, verso i servizi sociali. Sono seguiti in tutto, fino al conseguimento di un certificato finale, che attesta il “processo di integrazione”, ma solo sulla carta.

Tuttavia, dando per quasi scontato che il “tifo calcistico” spesso contribuisce a una “ludica non integrazione”, nel caso dei Mondiali di Calcio in Qatar – ricordo che il Paese è ancora la base dei Fratelli Musulmani, aggregazione islamista considerata terroristica anche da molti Stati arabo-musulmani – a Bruxelles si sono sintetizzati più fattori di non integrazione. Incendiati, molto probabilmente, dall’alibi legato alla “fede calcistica.

Domenica, durante e dopo la partita tra Belgio e Marocco, conclusasi con la vittoria della Nazionale nordafricana, la polizia di Bruxelles-Capitale/Ixelles, in seguito ai disordini che hanno scosso il centro della città, ha effettuato una decina di arresti. I tifosi della compagine marocchina hanno provocato diversi danni. Molte persone sono rimaste ferite, sono state registrate aggressioni alle forze dell’ordine e ai Vigili del fuoco. Si sono verificate sassaiole contro i mezzi di supporto e anche di soccorso, in particolare nel boulevard Lemonnier. Intorno alle 19 è tornata la calma nel centro della capitale, anche nei quartieri Molenbeek-Saint-Jean, Schaerbeek e Anderlecht.

Il fatto sarebbe potuto passare inosservato, tanta è la frequenza di questi fenomeni violenti legati al calcio. Ma la distruzione di cassonetti, macchine, motorini e altri mezzi di trasporto urbano, il blocco del centro della città... Insomma, tutti questi episodi provocati da un folto gruppo di immigrati afro-arabi, non solo marocchini, schierati contro la polizia, fa sorgere molte riflessioni. Una cosa è certa: se una partita di calcio, ritenuta una questione di un articolato revanscismo, è l’occasione per mostrare la presenza e il potere, questa è l’ennesima dimostrazione che un tipo di processo di integrazione è fallito.

A Bruxelles quasi il 26 per cento della popolazione è di religione islamica, quasi la totalità è sunnita. Nel Belgio, per la cronaca, è di circa il 7 per cento. Si tratta di una complessa opera di inclusione, che va oltre i fatti di domenica e che suggella, nuovamente, l’utopia di una integrazione globale, anche alla luce di chiari sentimenti di alienazione culturale, emarginazione e un generalizzato disorientamento. Fattori, questi, che condussero almeno 430 “integrati” belgi ad arruolarsi tra i jihadisti dell’Isis, per combattere soprattutto in Siria. Adesso risulta che oltre centoquaranta soggetti abbiano lasciato le loro spoglie in Mesopotamia. I restanti, in qualche modo, pare siano ritornati! Servono nuove prospettive integrative, per risollevare le reali possibilità di una integrazione interculturale, al fine di non aggravare la già incombente agonia sociale.


di Fabio Marco Fabbri