Sanscemo

Che piaccia o meno il Festival di Sanremo rappresenta uno spaccato fedele della nostra società. E il fatto che la nostra società sia un enorme blob agonizzante, lo si arguisce anche dall’osservazione di questo spettacolo organizzativamente mastodontico ma modesto a livello di contenuti. È questa un po’ la sintesi dei tempi moderni: non conta tanto il “cosa” ma il “come”, triste formula che vale per tutto ciò che ci circonda, dalla gestione della cosa pubblica allo spettacolo, passando per i rapporti umani.

Partiamo da questi ultimi e domandiamoci come mai una (doverosa) standing ovation per il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella e nemmeno un pistolotto d’ordinanza sul terremoto in Turchia. D’altronde, dovremmo restare buoni, umani, sensibili alle tragedie mondiali e poi ci perdiamo in un bicchier d’acqua. La qual cosa fa il paio con la presenza del presidente ucraino a Sanremo, della quale poi alla fine non se ne è fatto nulla ma che è sembrata più una marchetta pubblicitaria (vicendevole) che altro.

Anche la musica è passata leggera sulle nostre teste. Leggera nell’accezione di inconsistente, sia dal punto di vista dei contenuti che da quello prettamente tecnico: non ci è parso (almeno in questa prima serata) di scorgere una canzone come “Nel blu, dipinto di blu” capace di restare scolpita a lettere d’oro nella storia della canzone italiana. E non ci è parso neppure di scorgere vocalità degne di questo nome. Solo una serie di “quisque de populo” buttati lì, come se fino a un minuto prima si fossero occupati di altro. Sono i tempi moderni, baby, quell’enorme contenitore general-generico in cui i contenuti, relegati tra le varie ed eventuali, vengono dopo il contenitore stesso. Oggi la gavetta non esiste, perché entri nello star system per futili motivi, cioè con i video su TikTok, partecipando a un talent, diventando virale su YouTube o facendo l’influencer.

E infatti la diva più acclamata della prima serata è stata proprio una influencer (Chiara Ferragni), le cui doti (eccezionali) imprenditoriali e comunicazionali non sono in discussione, ma che è diventata un marchio prendendo il niente, imbellettandolo alla perfezione e facendone un impero. Sarà anche un impero basato sul niente, ma è pur sempre un impero fondato sulla capacità di intercettare la voglia di sottovuoto spinto della gente, offrendo un (non) prodotto vincente. Sarebbe bastato rimanere sulla vacuità e volare a pelo d’acqua sulle cazzate. Se non fosse che Chiara Ferragni ha presunto di potersi occupare di contenuti: da quel momento è iniziato il Festival delle contraddizioni, con una donna che ha ritenuto di poter scrivere una lettera a se stessa, parlando delle proprie fragilità e delle proprie insicurezze, struggendosi per queste cose comodamente in mutande e in mondovisione.

Conta “come”, dicevamo, e non “cosa”. E a questa regola moderna fanno eccezione solo i più attempati, quelli vecchio stile come Roberto Benigni, il quale è sembrato un gigante di fronte alla vacuità smidollata ed ebete di Blanco, uno che non sente la sua voce nelle cuffie e si fa prendere dalle convulsioni spaccando mezzo palco, così “perché non mi sentivo e almeno mi sono divertito”. Roberto Benigni è sembrato un eroe nazionale, un Dante Alighieri in chiave moderna, un sobrio cantore nonostante volesse fare la solita manfrina celando dietro all’elogio della “Costituzione più bella del mondo” una propaganda antigovernativa contro le già annunciate riforme costituzionali.

Aggiornato il 09 febbraio 2023 alle ore 10:13