Polonia chiama Italia. L’Occidente, il patriottismo ucraino e l’idea di nazione

Un anno dopo l’inizio dell’operazione militare con cui la Russia ha invaso l’Ucraina, tentando di conquistarne la capitale per rovesciare il legittimo governo, e occupandone i territori sud-orientali, possiamo constatare due fatti: il secondo più potente esercito del mondo si è impantanato su una linea del fronte imposta dalla resistenza ucraina sostenuta da Stati Uniti e Unione Europea; l’altro dato di fatto è che il patriottismo degli ucraini è una realtà, forse non prevista dal Cremlino, che ha formato una difesa flessibile e sparsa sul territorio, alimentata dall’istanza di libertà e concretizzata non da arruolati a forza né da mercenari (come il gruppo Wagner), ma da volontari, cittadini e famiglie, cioè dall’intera popolazione, oltre che, ovviamente, da un esercito regolare addestrato e ben armato.

Il popolo ucraino è dunque degno di encomio, per l’impegno civile, militare ma soprattutto morale e spirituale; una manifestazione di coraggio e di patriottismo che sembra quasi inconcepibile oggi, nell’epoca della globalizzazione e della decostruzione dell’idea di nazione, un eroismo che la guerra scatenata dalla Russia neosovietica ha fatto emergere, nella tragedia, come un fulgido esempio per l’intero Occidente.

Il coraggio unito al patriottismo forma una miscela virtuosa che sorregge l’azione tanto quanto alimenta lo spirito. E le lodi a questa duplice virtù sono tanto antiche quanto la storia dell’Occidente, come dimostra il grandioso discorso di Pericle del 431 a.C. agli Ateniesi, per onorare i caduti del primo anno della guerra del Peloponneso: «È giusto porre in rilievo il coraggio dimostrato da costoro che lottarono contro il nemico, difendendo la patria. […] Nessuno fu vile, né arretrò davanti al rischio estremo […]. Ritennero miglior destino combattere e morire che ripiegare e salvarsi. Sfuggirono lonta della viltà, ressero a prezzo della vita lo sforzo e nell’attimo folgorante che corona il destino, al culmine di un lucido eroismo, più che d’uno smarrito sgomento, trapassarono».

Il disincanto postmoderno e positivistico dell’Occidente nihilista svaluta queste espressioni come vuota retorica patriottica, ma al tempo stesso appoggia fermamente la resistenza ucraina: qui emerge una contraddizione che si spiega con la potenza e la persistenza dell’idea di nazione e dell’amor di patria, che può dunque superare anche la forza ideologica del nihilismo etico, culturale e politico che imperversa nel mondo occidentale. La voce della patria non è stata del tutto soffocata dal clamore della retorica globalista e dai dogmi del politicamente corretto, e con essa riemerge, come vedremo, l’idea di nazione.

Se la principale delle definizioni di guerra giusta corrisponde alla lotta per difendere la propria patria, gli ucraini stanno combattendo una guerra giusta, a differenza della Russia. Per fare un esempio, se la prima guerra del Golfo fu giusta perché restituiva sovranità a un paese invaso (il Kuwait) punendo l’invasore (l’Irak), l’azione della Russia oggi è paragonabile a quella dell’Irak; l’invasione dell’Ucraina analoga a quella del Kuwait.

Dinanzi all’eroismo ucraino, la solidarietà dei popoli europei si è tradotta in accoglienza dei profughi da parte dei singoli paesi, sostegno istituzionale da parte della UE, e forniture militari da parte della NATO. L’Occidente risponde all’appello di un popolo che è e si sente profondamente europeo. E in questa risposta, ad occupare la prima linea, in tutti i sensi, è la Polonia.

Non è solo per contiguità geografica e per vicinanza solidale, che la Polonia si è assunta l’onore di assorbire la maggiore ondata di profughi e di schierare un imponente dispositivo militare della NATO, ma anche perché essa ha compreso l’essenza sovietica dell’attuale nomenklatura russa e, quindi, il pericolo che viene oggi da Mosca. E, al tempo stesso, avendo subìto invasioni ed eccidi (Katyn è una ferita che non potrà mai rimarginarsi) da parte dell’URSS, i polacchi comprendono lo stato d’animo che pervade oggi gli ucraini, per i quali i massacri compiuti oggi dai militari russi sono come il ritorno di un passato che, pur non dimenticato, si pensava non potesse ripresentarsi: l’Holodomor – cinque milioni di ucraini uccisi dai bolscevichi per fame e per fucilazione nel 1932 –, che aleggia come uno spettro sull’Ucraina invasa e bombardata oggi dal regime neosovietico, e rappresenta un incubo collettivo del popolo ucraino, un incubo che si insinua e si rinnova nella mente delle persone, e che spinge le istituzioni a reagire con la massima durezza possibile. Il regime russo non vuole riconoscere la colpa di quel genocidio, come il regime turco non ammette quello compiuto sugli Armeni, ma ora l’Occidente deve compiere un atto di giustizia e condannare definitivamente lo sterminio degli ucraini per ciò che effettivamente è stato: genocidio. Una parola esplicita, dura, cruda ma vera, senza mitigazioni ma pure senza pulsioni russofobe. Non bisogna infatti confondere i russi con i sovietici, il popolo russo con il Cremlino, né cadere nella trappola retorica della russofobia, che l’autocrazia putiniana ha teso per catturare i babbei e per occultare la propria vera essenza nihilista e criminale. In modo analogo, con un gesto di giustizia più ampio, l’Occidente deve condannare in forma altrettanto definitiva l’ideologia comunista, in tutte le sue varianti, di tutte le epoche e di tutte le latitudini.

Non russofobia dunque, ma rifiuto del comunismo, del sovietismo passato e di quello presente. Su questa differenza ideologica si gioca l’intera partita fra Occidente e Russia, perché solo così si può smascherare la disinformazione con cui il Cremlino martella l’opinione pubblica occidentale riuscendo perfino a convincere molte menti deboli o ideologicamente preconfezionate, cattolici ingenui e mestatori culturali. Mosca oggi brandisce infatti il tema dei valori spirituali con lo stesso cinismo con cui il politburo predicava l’uguaglianza fra gli uomini: frottole, menzogne clamorose usate come strumento di guerra psicologico-ideologica secondo i metodi del KGB (il discorso di Putin del 21 febbraio è infatti intriso di demagogia nazionalistica, larvata nostalgia sovietica, ciarpame pseudoreligioso e stratagemmi moralistici, teoria eurasiatica e appelli ai tradizionalisti europei).

Nel Novecento, da parte occidentale si registrarono svariate interpretazioni della minaccia sovietica, tutte però improntate al realismo. All’epoca dello schieramento dei missili sovietici SS20, alcuni settori della politica tedesca – accanto alla sana Realpolitik dei conservatori e dei liberali, che sotto una patina di velluto concedeva poco ottenendo qualcosa in più –, adottarono una deleteria acquiescenza verso l’impero sovietico, la quale trovò espressione nella celebre formula «meglio rossi che morti». Oggi gli ucraini, con il loro atteggiamento e le loro azioni, sembrano dire: meglio morti che russi. Un salto di qualità non solo nel sentimento di patria ma pure nella concezione della vita: il popolo ucraino sta insegnando qualcosa a un Occidente che, pur avendo lodevolmente attribuito valore supremo alla pace, ha tuttavia perso il senso dell’eroismo.

In questo quadro, la Polonia spicca per posizione geografica, collocazione geopolitica, orientamento spirituale ed esperienza storica, per qualità cioè che le permettono di capire e in certa misura perfino prevedere le mosse di una Russia sempre più minacciosa e marcatamente neo-sovietica. È da 250 anni che i polacchi, come ha scritto Eryk Mistewicz sul giornale francese L’Opinion, si ribellano all’imperialismo russo e poi sovietico, e proprio perciò ritengono che «oggi sostenere l’Ucraina aggredita sia un dovere di tutto il mondo civile». L’appello di Varsavia, che a sua volta fa eco a quello di Kyiv, è limpido, univoco e autentico, al punto che sul terreno complessivo della guerra in Ucraina, la Polonia si è profilata come il leader strategico dell’Unione Europea. Grazie a una lucida visione militare e a una perfetta comprensione politica delle intenzioni retrostanti a questa intollerabile aggressione, il governo polacco (in questo caso con l’adesione anche di quasi tutti i partiti di opposizione) ha mostrato una straordinaria capacità di interpretare la situazione geopolitica attuale.

Ora che la cortina di ferro è stata abbattuta e che i paesi dell’Europa orientale hanno potuto liberamente scegliere da che parte stare; ora che la guerra fredda è diventata calda, si sono affacciate nuove forze sulla linea di demarcazione fra Occidente e Russia, tra le quali la Polonia e l’Italia sono senza dubbio le più attrezzate dal punto di vista geopolitico. Per motivi storici, spesso tragici, nei rapporti con la Russia zarista e con quella sovietica poi, la Polonia è all’avanguardia nella conoscenza delle dinamiche profonde su cui si orienta la Russia attuale, e per motivi politico-militari strategici essa è il migliore alleato degli Stati Uniti sul suolo europeo. Queste due qualità fanno della Polonia il principale, sebbene non così appariscente come Francia e Germania, punto di riferimento dell’Europa nel conflitto (che speriamo venga presto ridimensionato a confronto) con la Russia. Dal canto suo l’Italia, durante la guerra fredda, è stata in prima linea nel settore sud-orientale dell’Europa e ha maturato una notevole esperienza nei rapporti con l’est europeo e con l’Unione Sovietica; ha subìto una lunga e tragica stagione di terrorismo rosso finanziato da alcuni paesi del blocco sovietico; ha avuto al suo interno il più grande partito comunista dell’Occidente e ha potuto conoscere a fondo sia, purtroppo, i danni politico-sociali sia i punti deboli di quella ideologia, e anche per questo motivo è stata, fino ai primi anni Novanta, un partner privilegiato degli Stati Uniti.

Oggi, nel fragile e volatile mosaico geopolitico, l’Italia governata da Giorgia Meloni ha decisamente rafforzato il suo ruolo nel conflitto in Ucraina e più in generale all’interno dell’Alleanza Atlantica. Rispetto al passato, la presidente Meloni ha apportato infatti un elemento di carattere politico-culturale che consiste, detto in breve, nella valorizzazione dell’idea di nazione, che nei governi precedenti era invece subordinata o talvolta addirittura occultata rispetto alla tesi globalista e alle sue implicazioni ideologiche. E sta dimostrando che si può tenere insieme le esigenze di respiro internazionale e globale con le istanze nazionali in senso proprio, e riesce a farlo perché la sua visione geopolitica è, innanzi tutto, culturale, e si esprime lungo i percorsi di una destra del tutto affrancata da tentazioni autoritarie che ha assunto, in via definitiva, la forma di un liberalconservatorismo profondamente interiorizzato non solo nella linea politica di Meloni ma pure nella coscienza del suo partito e della coalizione di governo. Qui, sul nodo nazione, si intrecciano e si consolidano i rapporti politici fra Italia e Polonia, mostrando potenzialità di scala continentale, sul piano sia politico sia istituzionale.

Fin dal primo giorno dell’invasione, il premier polacco Morawiecki ha espresso nel migliore dei modi, sia dal punto di vista pragmatico sia da quello morale, l’esigenza di chiarezza e di verità che la contingenza storica reclama; e l’attuale premier italiana ha, anche in precedenza, dall’opposizione, sempre espresso la medesima istanza, sostenendo con coerenza la linea atlantista. L’incontro a Varsavia fra Mateusz Morawiecki e Giorgia Meloni simbolizza e certifica dunque un nuovo asse strategico che può diventare determinante per i futuri assetti continentali; e la visita di Meloni a Kyiv suggella da un lato questa alleanza con la Polonia e dall’altro il risoluto e pieno sostegno dell’Italia all’Ucraina.

Dallo scenario ucraino emerge un ulteriore dato inoppugnabile. La NATO, ritenuta obsoleta dal punto di vista storico e inadeguata da quello militare, e uscita poco dignitosamente dall’inferno afghano, si è dimostrata attuale sul piano geopolitico ed efficace su quello bellico. Questi sono elementi decisivi sia per comprendere quanto sta accadendo sullo scenario globale, sia per valutare l’importanza della NATO per la difesa dell’Occidente.

La necessità della NATO, che molti in Occidente volevano addirittura abolire e che alcuni ora continuano ad aborrire, è oggi confermata in modo irrevocabile da un reticolo politico al cui centro si trovano Italia e Polonia, i cui governi esprimono non solo la lealtà al patto atlantico ma anche la fedeltà ai propri popoli, non solo il rispetto delle alleanze internazionali ma anche la cura dei propri interessi nazionali. Meloni e Morawiecki dimostrano che atlantismo e sovranismo si possono perfettamente coniugare, e da qui si può altrettanto bene passare a integrare europeismo e sovranismo, senza contraddizione, per arrivare al cambiamento nel governo dell’Europa, guidata da quasi trent’anni da un’anomala coalizione fra popolari e socialisti, frutto di interessi contingenti e non di valori condivisi, sorretta da una volontà di potere e da un pragmatismo brutale che unisce nella prassi ciò che in teoria non è unibile, formando un inquietante ibrido politico.

Si tratta dunque di staccare i popolari dai socialisti, e di unire i primi ai liberalconservatori, anzi, di ri-unirli, ripristinando la loro alleanza all’epoca della guerra fredda, perché oggi le condizioni globali sullo scacchiere europeo sono sostanzialmente analoghe a quelle del secondo Novecento. L’alleanza strategica fra popolari e liberalconservatori permetterebbe di allestire una piattaforma operativa che, sul piano dei valori, inverta la traiettoria nihilista attualmente seguita dall’Unione Europea; che sul terreno politico, istituzionale e culturale rafforzi le nazioni, non come entità chiuse ma come corpi autonomi della grande patria europea; e che sul piano geopolitico superi le ambiguità delle attuali maggioranze di centrosinistra e rilanci l’alleanza con gli Stati Uniti (e con Israele) in tutti gli ambiti strategici e su tutte le linee di confronto o di conflitto con le altre potenze globali o regionali. Il sentiero è stretto ma nitido, e promettente: si tratta di percorrerlo con saggezza ma senza esitazioni.

Aggiornato il 23 febbraio 2023 alle ore 09:32