Fallimento Silicon Valley Bank: effetto farfalla

Ci siamo presi un gran spavento, inutile negarlo. La notizia choc – alcuni giorni orsono – del default della Silicon Valley Bank a cui è seguita, in Europa, la crisi del Credit Suisse, colosso elvetico, ha gettato i risparmiatori nel panico. La sola idea di rivivere una tragedia finanziaria come fu quella dei mutui subprime – generatasi negli Stati Uniti nel 2006 – ha prodotto un’ondata di sfiducia nelle capacità di tenuta del sistema bancario globale.

Tuttavia, il temuto contagio non è avvenuto. Ed è una fortuna. Prima il Dipartimento del Tesoro Usa che, in concorso con la Federal Reserve e la Federal deposit insurance corporation (Fdic), è intervenuto con misure d’emergenza a garantire i risparmiatori coinvolti nel crac della sedicesima banca statunitense in ordine di grandezza; poi, l’intervento del presidente Joe Biden che si è detto pronto ad attivare qualsiasi misura necessaria pur di proteggere il settore bancario statunitense. Segno che il rischio di contagio per il sistema bancario globale, a causa di una crisi che è solo in parte endogena alle aziende interessate, è una possibilità che è sul tavolo. Non a caso, è stato acceso un faro su altre aziende di credito statunitensi di dimensioni regionali, ugualmente a rischio d’insolvenza. Si tratta di: First Republic Bank, Western Alliance Bancorp, PacWest Bancorp, East West Bancorp e Zions Bancorporation.

Non è poco. Come non lo è il caso europeo di Credit Suisse. Quando nei giorni scorsi il principale azionista della banca elvetica, la Saudi National Bank (Snb) – partecipata in quota maggioritaria dal Fondo per gli investimenti pubblici dell’Arabia Saudita (Pif) – ha detto “no” a un’immissione di liquidità nelle casse dell’istituto, il suo titolo è crollato al -30 per cento, dopo aver perso, da marzo 2021, l’83 per cento del suo valore. È stato necessario un massiccio intervento della Banca nazionale svizzera, sostanziatosi in 50 miliardi di franchi in prestiti a breve e l’impegno della stessa banca a riacquistare 3 miliardi di euro del proprio debito senior, per riportare la calma sui mercati.

Con le borse che stanno recuperando terreno dopo i tonfi degli scorsi giorni, la tempesta finanziaria potrebbe considerarsi risolta. Ma non è così. Resta l’allarme per un pericolo che è stato evitato ma non eliminato, giacché non ne sono state rimosse le cause originarie. Oltre ai gravi errori reiterati dalle governance delle aziende coinvolte, tra queste cause vi è l’inversione di tendenza delle politiche monetarie messe in campo dalle banche centrali per fronteggiare l’impennata inflazionistica. Il rialzo dei tassi d’interesse sul costo del denaro ha innescato il meccanismo perverso che ha portato al default della banca statunitense e al rischio concreto che altre nel prossimo futuro possano subire il medesimo destino. Cos’è accaduto negli Stati Uniti? La decisione della Federal Reserve (Fed) di puntare sul rialzo dei tassi d’interesse per frenare la spinta inflattiva ha costretto il sistema delle start-up californiane della Silicon Valley, principali clienti della Svb, a dotarsi di maggiore liquidità, togliendola alla banca di riferimento. Quest’ultima, per fare fronte alle richieste della clientela, si è vista costretta a reperire denaro sul mercato, alienando in perdita obbligazioni e titoli, in particolare quelli del debito sovrano statunitense i quali, per effetto delle politiche monetarie della Fed, avevano subito perdite di valore.

Il crollo ha avuto immediati contraccolpi in Gran Bretagna, dove la Bank of England ha chiesto lo stato di insolvenza per la Svb Uk, e ne ha bloccato i pagamenti e i depositi. L’Europa della zona euro, invece, è sotto la stretta sorveglianza della Banca centrale europea la quale, in fatto di lotta all’inflazione, la pensa allo stesso modo dell’omologa autorità di vigilanza statunitense. È ragionevole ipotizzare che entrambe le istituzioni finanziarie, che operano sui due versanti dell’Oceano Atlantico, si trovino ad affrontare il medesimo dilemma: scegliere tra lotta all’inflazione e stabilità finanziaria, atteso che, come dimostrano i fatti di questi giorni, le due cose non si tengono insieme. La Bce ha confermato la linea dura nella lotta all’inflazione attraverso l’innalzamento del tasso d’interesse di 50 punti base. Al contrario degli Stati Uniti, dove la politica di intervento sul rialzo del costo del denaro vive una fase di ripensamento dopo il crollo della Svb. Tuttavia, se questo è il quadro non possiamo mancare di osservare che all’insieme manchi un nesso causale decisivo. Il convitato di pietra di questa storia è la guerra russo-ucraina. Qui le tifoserie da stadio non c’entrano nulla, men che meno c’entra il pacifismo peloso dei “buonisti in servizio permanente effettivo”, i quali brigano per uno stop all’invio di armi all’Ucraina, non avendo mai smesso di sperare nella sconfitta di quella stessa civiltà occidentale che li ha partoriti.

Occorre una riflessione seria e pacata sulle conseguenze di una guerra che i Paesi Nato hanno pensato di combattere per interposto popolo ucraino, nella granitica certezza di poter avere rapidamente la meglio sul nemico russo, valutato inferiore dal punto di vista economico, strategico e geopolitico. Si è ritenuto che il combinato disposto di sanzioni economiche e forniture di armamenti all’Ucraina avrebbe messo all’angolo l’autocrate moscovita, Vladimir Putin, costringendolo alla resa. Dopo un anno di durissimi scontri la situazione sul campo è in stallo ma con un leggero vantaggio per i russi che, seppure lentamente, continuano ad avanzare nel Donbass. L’Ucraina è allo stremo da tutti i punti di vista e adesso comincia ad avere problemi di mancanza di uomini da mandare al fronte. Il preconizzato crollo dell’economia russa non c’è stato. L’evento bellico ha spinto i vertici del Cremlino a riavviare la produzione dei sistemi d’arma convenzionali. Se è vero che l’Europa è riuscita in parte a disinnescare l’effetto sulle proprie economie dell’interruzione degli approvvigionamenti di materie prime energetiche dal fornitore russo, è altrettanto vero che Mosca non si è persa d’animo e ha girato ad altri clienti sparsi nel mondo lo stock di petrolio e gas eccedente dopo la risoluzione dei contratti di fornitura con i Paesi europei. L’Occidente si è trovato a fare i conti con un’inflazione non prevista, generatasi sul lato dell’offerta, che ha avuto conseguenze devastanti sulle economie nazionali.

Ora, la crisi finanziaria che rischia di sistematizzarsi è solo l’ultimo in ordine di tempo degli effetti della teoria del Caos applicata alla geopolitica: un missile russo su Bakhmut provoca il fallimento di una banca negli Stati Uniti. Si chiama “effetto farfalla”. Le opinioni pubbliche occidentali dovrebbero spingere i Governi a riconsiderare la possibilità di aprire al negoziato di pace con Mosca, mettendo in conto che una soluzione comporterebbe inevitabilmente sacrifici territoriali, e non solo, per l’Ucraina. Per restare con i piedi per terra, non si potrà andare oltre un cessate-il-fuoco permanente che cristallizzi la situazione come oggi si rappresenta sul terreno. Sarebbe una soluzione analoga a quella adottata per porre fine, nel 1953, alla guerra di Corea. Nelle condizioni date, l’unica certezza resta la guerra, pur con tutti i rischi che l’accompagnano, a meno che non sia proprio l’inquilino della Casa Bianca, impegnato a tutelare gli interessi del sistema finanziario del suo Paese, a cambiare rotta ridimensionando drasticamente il sostegno, oggi incondizionato, alla causa ucraina. Non sarebbe una novità. È accaduto in Afghanistan, dove gli Usa hanno permesso ai talebani di riprendersi il potere senza averli prima vincolati al rispetto dei diritti umani.

Comunque vada, la vicenda della crisi finanziaria sfiorata è un campanello d’allarme per i governanti europei. Il prolungarsi della guerra è causa di fallimento delle economie occidentali quanto potrà esserlo in futuro del sistema economico-finanziario russo. Non possiamo concederci il lusso di attendere che il nemico imploda, quando vi sono segnali evidenti di crepe nel paradigma occidentale. L’auspicio è che un sano realismo spinga i vertici politici dei Paesi Nato a cambiare postura nelle relazioni con Mosca. Sperare che la situazione non sfugga di mano non è disfattismo antipatriottico. É puro buonsenso.

Aggiornato il 17 marzo 2023 alle ore 10:10