La resilienza

La sicumera di certi pianificatori che impazzano a Bruxelles e nelle capitali degli Stati europei non è giustificata. Che il clima sia cambiato, che la temperatura globale sia aumentata, che il cambiamento e l’aumento siano avallati dalla scienza quasi all’unanimità, che siano pericolosi per le presenti e ancor più per le future generazioni, è vero. Che tutto questo deve essere affrontato da piani nazionali e globali, onnicomprensivi e stringenti, è dubbio. La storia avrebbe dovuto ammaestrarli, tali pianificatori, se la storia insegnasse qualcosa. Fatto sta che l’Unione europea, con i suoi Piani, Missioni, Agende, Fondi, eccetera, costruisce non soltanto l’impalcatura della transizione ecologica ma stabilisce anche le misure specifiche per indurre le imprese e gl’individui a realizzarla. Nessuno può sapere dove ci porterà la transizione ecologica, a cose fatte. Intanto, il cammino intrapreso sembra di per sé costrittivo oltre le necessità dello scopo perseguito.

La pianificazione sta diventando stringente senza motivo, soprattutto perché impone il presunto ben fare anziché vietare il mal fare. A capire il punto, aiuta proprio la resilienza, un desueto vocabolo preso a prestito dal linguaggio tecnico e divenuto comunissimo sulla bocca dei politici e nei mezzi di comunicazione. Che significa esattamente? In italiano, resilienza indica nella metallurgia la resistenza alle rotture verificata con una prova d’urto oppure l’attitudine dei filati e dei tessuti a riprendersi dopo una deformazione. In inglese, resilienza significa sia, in senso fisico, la capacità di un corpo di riprendere la dimensione o la forma dopo essere stato compresso, piegato o allungato, sia, in senso morale, la capacità di riprendersi o adattarsi facilmente al cambiamento o alla sfortuna. In passato una tale capacità gl’Italiani l’avrebbero chiamata semplicemente fortezza, ma vada pure per resilienza alla maniera inglese in ossequio al Pnrr. Dunque, la pianificazione imposta agli Stati dall’Ue porterà gli Europei ad adattarsi facilmente o comporterà la sfortuna di dovercisi adattare?

I miliardi a disposizione dell’Italia non bastano allo scopo, in senso qualitativo e quantitativo. Né l’Unione europea né il Governo italiano (non è questione di destra e sinistra) hanno la preveggenza di stabilire quanto e dove investire fruttuosamente, seppure riuscissero ad individuare il settore d’intervento. La sanità costituisce un esempio emblematico di investimento fruttuoso come settore d’intervento, ma piuttosto insicuro nel risultato. Supponiamo che la “cabina di regia” del Piano di Rinascita stabilisca di costruire le case territoriali della salute; supponiamo inoltre che le Regioni non litighino sui criteri di distribuzione delle case stesse; supponiamo ancora che le amministrazioni regionali riescano a costruirle contro le preferenze e le opposizioni dei Comuni; supponiamo, infine, di averle costruite impiegando al meglio il finanziamento europeo. Avremmo le strutture, magari perfettamente attrezzate, e i malati non mancheranno. Ma avremmo pure i medici, gl’infermieri e l’altro personale per farle funzionare, e i soldi per mantenerle negli anni a venire? I finanziamenti dovrebbero essere utilizzati per il tipo di investimento che non implichi immediati aumenti correlati di spesa pubblica, mentre quelli conseguenti a regime dovrebbero essere ripagati poi con i frutti dell’investimento. Per esempio, un investimento straordinario in case popolari da regalare (sì, regalare!) ai bisognosi e farla finita per sempre con la crisi degli alloggi, con gli annessi e connessi alle graduatorie, con gli speculatori politici dell’emergenza abitativa, con le illegalità gravissime perpetrate sotto pretesto del “diritto” alla casa.

L’Unione europea sta pianificando fin troppo i modi, i mezzi, i tempi, le mete degli Europei. Le intenzioni sono ottime, come sempre, trattandosi di politici. Tuttavia, l’imponente allocazione di risorse decisa, con criteri poco o punto imprenditoriali, non garantisce affatto né che i soldi regalati non vadano in stravizi né che i soldi mutuati non finiscano in “debito cattivo” anziché in “debito buono”. La quantità stessa del denaro fa presagire che il suo impiego non sarà oculato. E doverlo spendere pure in fretta, fa presagire il peggio.

Aggiornato il 05 aprile 2023 alle ore 10:09